Si sale in corsa a bordo di Salvo, che inizia in medias res, subito azione forsennata senza nemmeno l’agio di un titolo di testa, forse perché a Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, esordienti quarantenni, prudevano le mani per l’impazienza, dopo un’attesa di cinque anni perché la loro creatura vedesse la luce. E allora siamo subito nel mezzo di una sparatoria, secca e brutale come l’esistenza dell’eponimo protagonista, monolitico killer dagli occhi di ghiaccio che non conosce pietà per le sue vittime, poco male se inermi: una mano posata sulla fronte e giù il grilletto.
Nemmeno il tempo di prendere fiato e siamo altrove, ma di nuovo con l’alito sul collo di Salvo – ancora non gli abbiamo visto il volto, ancora non gli abbiamo visto gli occhi – pronto a uccidere di nuovo, e poi a caccia di Rita, la cieca. Una caccia magnifica, tutta in pianosequenza, su e giù per le scale, saranno 15 minuti, scanditi scaltramente da un pezzaccio pop (Arriverà dei Modà) diegetico, che si rivelerà più avanti metonimia da manuale; una caccia drammatica ma epifanica in cui i due stabiliscono il primo, animalesco e brutale contatto con l’Altro che la vita abbia loro destinato. Ecco finalmente il controcampo sullo sguardo di Salvo, che non può che appartenere alla soggettiva di Rita. Salvo – storia di mafia in cui la mafia, mai nominata, è scenario in cui ambientare un racconto di formazione e d’amore – può avere inizio.
In Salvo non si mangia né si dorme, perché a Palermo fanno 40 gradi all’ombra e i condizionatori sono scassati. Ma soprattutto perché i sensi (la vista in primis, a seguire l’udito, il tatto, l’olfatto) sono tutti esposti e protesi, troppo preponderanti perché si possa trovare la quiete. Il film si è intanto assestato dopo il furioso prologo in tempo reale, ma non si è seduto. Salvo, dopo l’incontro con Rita, è attanagliato dalla paura ma soprattutto è sconvolto dalla speranza. Rita, dopo l’incontro con Salvo, sa del mondo, che però le è precluso. La psicologia al cinema sta a zero, molto meglio i miracoli: improvvisamente entrambi vedono, ora, per la prima volta.
È un cinema sicuro di sé e infrangibile quello di Grassadonia e Piazza, perché anche quando ammicca alla teoria (Rita che si guarda per la prima volta allo specchio, consapevole immagine primaria), anche quando lambisce la poesia (le mani dei due protagonisti che si sfiorano timide e analfabete) non schioda mai i piedi da terra, una terra polverosa qual è quella dell’entroterra siciliano, ma potrebbe essere la Frontiera di un western morale di Anthony Mann. I due registi/sceneggiatori rivendicano un immaginario di genere tra western, appunto, e noir d’autore (venerano J.P. Melville, dicono), senza disdegnare il cinema sociale americano (la radio annuncia che il caldo torrido non darà scampo per giorni, come in Fa’ la cosa giusta di Spike Lee), l’action orientale (la colomba di John Woo) e addirittura il muscolare (il palestinese Saleh Bakri, figlio del grande attore Mohammad, è un incrocio tra Arnold Schwarzenegger e Alain Delon).
Un cinema semplice, nell’accezione più alta, che forte anche di alcuni fuoriclasse nel reparto tecnico (Ciprì alla fotografia, il veterano Marco Dentici alla scenografia, Guillame Sciama, già collaboratore di Haneke, al suono) sa utilizzare il linguaggio nelle mille opportunità che gli offre. Sa quindi tenere un duello fuoricampo per esaltarne la suspense, sa costruire una sequenza intorno all’abbaio di un cane, sa risparmiare sul dialogo per guadagnarne mistero, sa allentare la tensione della storia con due figurine grottesche di contorno (Lo Cascio e Giuditta Perriera) che contemporaneamente alludono però anche a un discorso molto molto serio sull’omertà mafiosa. Un cinema semplice, anche per dimensioni produttive (un milione di euro di budget, niente tv a supporto), ma ciò nondimeno, ogni volta che se ne ritrova traccia, pare di vedere per la prima volta.
Il film è bello, un po’ lento a tratti.
La storia è bella, la fotografia, i suoni, sono belli, la recitazione è perfetta, la psicologia dei personaggi, i loro desideri inconsci, le loro ansie, i percorsi che intraprendono inconsapevolmente a tratti forzatamente, sono ben rappresentati, le ambientazioni sono molto belle, la struttura della narrazione e le sue implicazioni, finanche il finale, volutamente ottimista, anche se malinconico, ma pregno di significati e portati simbolici è tutto ben congegnato. Dopo il film l’incontro con gli autori, anche quello molto interessante.
Incredibile e splendido risultato per un’opera prima.
Il fatto è che questa non è un’opera prima, in un certo senso, ma un’opera ultima, o unica, che sembra riassumere un’intera storia concettuale; un punto di arrivo, più che una partenza.
C’è questa sensazione che il film, che dichiaratamente è un film “sul cinema”, nel senso che è sapientemente costruito mescolando e contaminando generi (noir, western e cinema introspettivo), che è maniacale nell’utilizzo delle tecniche (c’è anche un certo compiacimento per gli sforzi richiesti ai partecipanti) e nell’impegno degli attori, che si basa su una sceneggiatura indiscutibilmente molto bella, pensata proprio per un tipo di film, quel tipo di film, si ha insomma la sensazione che il film sia molto, troppo, “costruito”, per essere un film che, per quel che si attende da un’opera prima , forse potrebbe veicolare delle emozioni forti, magari più semplici, in un contesto meno perfetto. È un film molto intellettualistico in sostanza. E laddove i maestri del cinema (almeno alcuni tra quelli a me noti), non sembrano compiere alcuno sforzo (pur invece impiegandone molti, pur essendo maniacali e dittatoriali) per raggiungere vette di poesia apparentemente semplice, e quindi di profonda comunicazione, “Salvo” mostra i suoi limiti di manifesto intellettuale. È in un certo senso troppo perfetto, a parte l’insopportabile canzoncina.
Comunque ben vengano film così, la critica vorrebbe essere costruttiva.