Gianfranco Rosi, presentando sere fa il suo “Sacro Gra” prima della proiezione per “Venezia a Roma” davanti a centinaia di persone, spiegava che in genere i romani odiano – o forse temono? – il Raccordo anulare. Verissimo. Ma quella che ha filmato e che fa da fil rouge delle storie che si intrecciano è una strada che gli spettatori della Capitale potrebbero finire per amare e rivendicare.
Perché il paesaggio che Rosi filma – e soprattutto mostra, grazie al montaggio durato sette mesi – non somiglia affatto a quello che un automobilista che percorre il Raccordo ha in mente e vede.
E’ difficile riconoscere molti delle location dell’Anello di asfalto che cinge Roma. Rosi dice che è stata una scelta. E qui per esempio sta il contrasto con “La grande bellezza”, che è colmo di luoghi riconoscibili e riconosciuti e, appunto, bellissimi, che fanno da contorno a una storia di decadenza.
La bellezza di questo Grande raccordo anulare cinematografico è dovuta invece non solo alla gran qualità delle riprese, ma al fatto che sta dentro a un panorama in continuo movimento, in cui trovi le pecore, gli aerei, il Tevere, le palme, quartieri di cui non sospettavi l’esistenza, visuali sconosciute, le nuvole, perfino la neve.
“Sacro Gra” trasforma un non luogo (nella definizione ormai classica di Marc Augé) in un veicolo di scoperte. L’importante non è la destinazione – cioè prendere il Raccordo per spostarsi da un posto all’altro di Roma – ma il tragitto, e quello che potresti scoprire se guardassi un poco oltre i confini della strada, come per esempio il fiume abitato e percorso in barca dal pescatore, uno dei personaggi.
E qui veniamo al punto. “Sacro Gra” non è un film, non è esattamente un documentario, né un docufilm. E’ una specie di Ufo cinematografico che finisci per amare per i suoi personaggi. Una documeddia, ma senza una sceneggiatura, che mostra esempi di un’umanità dolente e comica al tempo stesso (in sala si è riso spesso, talvolta anche amaramente).
Una docummedia nera, forse. I cui personaggi, in gran parte, non vivono solo ai margini del Raccordo (anche se il Gra, come ha detto il sindaco Marino, è al centro della città: fuori dal Raccordo vivono circa un milione e mezzo di persone, cioè grosso modo la metà degli abitanti della Capitale), ma apparentemente sono proprio ai margini.
(necessaria precisazione: parlo di personaggi perché, vista con gli occhi di uno spettatore al cinema, anche una persona normale, reale, diventa personaggio. E con gli occhi di un critico si trasforma in archetipo…).
“Sacro Gra” non celebra la romanità, che sia in positivo o in negativo, non parla tanto di Roma, o comunque ne parla molto meno della “Grande Bellezza”. Ed è questo suo carattere assoluto e sur-reale che gli è valso il premio a Venezia, credo. Ci sono dentro storie di chi lavora la notte e racconti di ossessioni, note sparse di urbanistica su una metropoli di inizio secolo, frammenti di vite, immagini di raduni religiosi, mestieri improbabili o antichi come le rovine che si intravedono appena e brevissimamente.
Del resto, Rosi è un regista globale. Nascita all’estero, doppia cittadinanza, tre opere importanti – note però praticamente solo agli specialisti fino all’altro ieri – che raccontano storie di personaggi diversi da tre diversi luoghi del mondo.
Ed è globale anche l’unico personaggio che compare nella locandina di “Sacro Gra”, il punteruolo rosso della palma, un tipo di insetto che distrugge questo tipo di alberi mangiandoli dall’interno, insaziabile, insieme alle sue larve urlanti, in quella che il palmologo – altro personaggio chiave -definisce “orgia”, un’orgia di consumo che non sembra avere fine. Come il Grande Raccordo Anulare.
Titolo geniale è stato detto, ma il titolo rende geniale il film ? Sì, in questo caso aiuta molto.
Aiuta perché già nel titolo si annuncia uno accostamento apparentemente innaturale di ciò che è sacro, la vita, a ciò che è l’antivita, in un certo senso, la struttura disumana e mostruosa, che fagocita, distrugge il paesaggio, l’ambiente, le risorse, inquina l’aria, marginalizza, uccide.
L’ambiguità del film, dal titolo, si estende anche alla tecnica cinematografica; è un film, è un documentario, è un docufilm, è una docummedia, non è nessuna di queste cose, cos’è? È un’opera complessa, non si può negare, un qualcosa che dai negativi, dai minimi dettagli, dai non luoghi e dalla desolazione, estrae e fa emergere la vita e la sua sacralità, indagando sui suoi significati, facendolo anche con gli strumenti della psicoanalisi direi, con la parola, con figure retoriche, con l’immagine fissa e sconvolta, inquietante, che penetra e disvela, ma soprattutto con la parola, con la libertà della parola e con il parlare che genera libertà.
Questo accostamento, la metonimia che si istituisce tra l’umanità che si autoisola, si confina nei suoi particolarismi, nelle sue solitudini e in sostanza sembra autodistruggersi consumando spazi e luoghi vitali e il mondo ferocemente autodistruttivo, orgiastico e furioso dell’insetto è di facile riscontro e fa da filo conduttore al resoconto della vita, ma la similitudine, a ben guardare è negata, e con forza. L’uomo che combatte il male è solo, non parla che con se stesso, ascolta sgomento solo i rumori di quello che a lui, a causa della solitudine si presenta come morte: lui non parla come fanno invece tutti gli altri personaggi, non sorride.
L’umanità è ritrovata nella capacità di sorridere, nel comunicare semplicemente, nella potenza salvifica della parola. Non siamo insetti, siamo esseri umani e il linguaggio che usiamo, a differenza loro che comunicano per necessità diciamo primordiali, noi sorridiamo, facciamo sorridere, instauriamo rapporti di affetto capaci di generare discorsi, di ridare senso alle nostre esistenze, anche in un contesto degradato e desolante.
La definizione dell’opera come film documentario è, credo, volutamente fuorviante, a me ha ingenerato una sorta di conflitto interpretativo, costringendomi a uscire da categorie di senso unidirezionali; le storie e i personaggi sono sì concretamente reali, le immagini sono rigorose, lo scorrere della vita, fiume strada aria, è rappresentato qual è senza retorica, grazie a dio non c’è traccia di fiction, ma nei personaggi e nelle loro storie, e nelle immagini, prevale la poesia, e il senso che il regista è stato capace di cogliere o, se vogliamo, di infondere.
Il merito indiscusso del film è aver dato dignità a quelle persone che, in altri contesti e forme di linguaggio (impietosi primissimi piani, commenti musicali debordanti), sono ritratti con violenza e spettacolarità. È raro trovare nel cinema uno sguardo così delicato su esistenze vissute ai “margini” (campi lunghi, soggetti di spalle, uso del controluce, rumori d’ambiente). Ma sono poi così ai margini? Quando le osservo, attraverso gli occhi di Rosi, scopro una dolcezza e un’umanità disarmante che mi dà la misura del luogo che abito e che mi riconcilia con questa città. Gli insetti, gli alieni, sono per me le macchine che passano veloci, in tondo, senza mai fermarsi e avere la percezione della vita nel suo quotidiano farsi. Due donne che vivono dentro un camper, dopo aver attraversato tutte le difficoltà e ingiustizie che un’esistenza come quella può averle riservato, possiamo, noi spettatori, onorabili cittadini privilegiati, giudicarle come scarti, rifiuti, alieni? Oppure persone che ci donano la misura della vita e del sacro facendoci sentire noi degli alieni. Racconta Rosi che Nicolini lo aveva consigliato di provare a far diventare il cerchio una retta. Io credo che, in questo senso, ci sia riuscito.