Il paesaggio, nei dizionari, è definito all’incirca così: 1. panorama, veduta più o meno ampia di un luogo; 2. la pittura o la fotografia che lo ritrae; 3. regione geografica caratterizzata dalla presenza di determinati aspetti fisici o antropici. La Convenzione Europea del Paesaggio, firmata nel 2000 da ventisette stati, lo descrive come “una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle persone, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni “.
Tutte queste definizioni sembrano non poter prescindere dalla soggettività umana. Il paesaggio, oltre a essere uno spazio fisico, rimanda alla visione e alla sua rappresentazione. Al rapporto enigmatico dell’uomo con la Cosa Natura, con il visibile. Da qui vorrei partire per analizzare Sacro Gra, il film di Gianfranco Rosi, vincitore quest’anno del Leone d’oro alla Biennale di Venezia.
Ci sono autori che sono difficili da incasellare e Gianfranco Rosi è uno di questi. Mi spiego meglio. Le sue immagini hanno più a che fare con la visione e il paesaggio che con il racconto. Il suo sguardo è muto. Non penetra, ma viene penetrato dalle cose, dalle persone, dall’ambiente. E in questo, il suo metodo di lavoro è esemplare. Lui opera da solo, si definisce un “one man crew” e dedica una lunghissima fase di preparazione a ogni suo film (tre, quattro anni), in cui non gira mai e dove instaura veri rapporti di amicizia con i protagonisti dei suoi film. Dice Rosi: “A me pesa moltissimo filmare, proprio il fatto in sé di tirare fuori la telecamera è una cosa che mi risulta enormemente difficile… Si tratta di identificare il momento in cui si può filmare: per me questo è, come dicevo, un processo arduo e doloroso.” La sua arte è possibile solo nel tempo, nel saper attendere, nel cercare e poi trovare uno sguardo, una forma. E il tempo, oltre a essere funzionale alla lavorazione del film, è elemento cardine di ogni sua inquadratura. Infatti, egli ama riprendere con macchina da presa fissa, campi lunghi e profondità di campo. Questo gli consente di far accadere le cose, di farle fluire all’interno dell’immagine.
In Sacro Gra, questo metodo sembra essere spinto all’estremo, “A dispetto dei film precedenti, mi stacco dalla biografia di chi ho incontrato per raccontarne frammenti di vita”, per riuscire a cogliere l’inafferrabile attimo di verità che un’inquadratura può magicamente catturare e che lo spettatore sente, non a livello verbale, ma nel profondo di sé. “L’immagine, come riteneva Gogol’, è chiamata ad esprimere la vita stessa, e non dei concetti o delle riflessioni sulla vita” (Tarkovskij).
Ma nei meandri di un’immagine o nella concatenazione di esse, chi guarda, lo spettatore, può trovare un filo che le genera e le lega. Dice Rosi: “.. è un film anche molto democratico, che si porta dietro le proprie immagini e lascia lo spettatore libero di farsi un’idea su quello che vede.” Il regista diventa quindi una sorta di medium tra la realtà e lo spettatore. E le immagini, liberate dal loro autore, rivelano inaspettate e innumerevoli chiavi di lettura. Proverò brevemente a esporre di seguito la mia. Grazie alla profondità di campo, ci accorgiamo che ogni casa è abitata, oltre che da persone, da animali. Dall’interno di una macchina, osserviamo un personaggio che saluta affettuosamente un cane. Mentre le pecore pascolano indisturbate nei pochi prati rimasti intorno al raccordo. E, attraverso ottiche d’ingrandimento e microfoni sensibili (l’analisi del suono di questo film richiederebbe un discorso a parte!), vediamo e soprattutto ascoltiamo i parassiti, l’orgia degli insetti che sbranano la palma, “l’individuo”, divorandola dall’interno fino alla sua morte. In conclusione, gli animali sembrano rimandarci, nel bene e nel male, alla nostra condizione di abitanti. All’espansione di una città, alle tante vite che popolano divorando i luoghi come insetti e invasori alieni. Ma anche, alle stesse vite, ora viste da vicino, nella loro struggente umanità.
Per tornare al nostro discorso sul paesaggio, Sacro gra è un film con uno sguardo interiore, che non si trova né di qua, né di là del cerchio, né sopra, né sotto. Per questo assume la dimensione del “sacro”, dell’universale, perché ci restituisce l’immaterialità della visione stessa che avviene in noi e non fuori di noi. In una scena del film, vediamo l’anguillaro Cesare seduto al tavolo con Irene che cuce, ancora dietro vediamo un uomo in piedi che lavora. Alla fine, quando crediamo che la sequenza sia conclusa, appare, ancora più in fondo, un cane che entra nella stanza, si guarda intorno, si sgranchisce e, dandoci le spalle, si siede mollemente. In quel momento senza sapere il perché, io sorrido. È difficile spiegare il motivo di quella emozione, ma è ciò che intendo quando dico che la bellezza del film sta in questo, nel risvegliare qualcosa nel corpo, forse il sentimento del tempo. Dice sempre Tarkovskij: “L’immagine incarnata sarà veridica se in essa si coglieranno i legami che esprimono la verità e che rendono tale immagine unica e irripetibile come la vita stessa, anche nelle sue manifestazioni più semplici”.
Bella bellissima riflessione, e molto profonda. Sono molto chiare le parole di Rosi; quello che avevo scambiato per ambiguità è in realtà libertà (c’è una bella differenza!). la dimensione del “sacro” e dell’universale è dentro di noi. L’artista è colui che tramite una composizione studiata, vissuta, esperita, di forze che sono atemporali, o meglio colte nell’attimo (senza tempo quindi) irripetibile in cui si compie la magia rivelatrice. Come nella pittura se vogliamo.
In alcuni quadri, in alcune composizioni, volti o corpi o immagini complesse, si ritrova l’inesprimibile, l’universale. Il tempo esce dall’esperienza e rivela la sua vera dimensione
Bella bellissima riflessione, e molto profonda. Sono molto chiare le parole di Rosi; quello che avevo scambiato per ambiguità è in realtà libertà (c’è una bella differenza!). la dimensione del “sacro” e dell’universale è dentro di noi. L’artista è colui che tramite una composizione studiata, vissuta, esperita, di forze che sono atemporali, o meglio colte nell’attimo (senza tempo quindi) irripetibile in cui si compie la magia rivelatrice, mostra la totalità e la libertà dell’universale. Come nella pittura se vogliamo.
In alcuni quadri, in alcune composizioni, volti o corpi o immagini complesse, si ritrova l’inesprimibile, l’universale. Il tempo esce dall’esperienza e rivela la sua vera dimensione
“A me pesa moltissimo filmare, proprio il fatto in sé di tirare fuori la telecamera è una cosa che mi risulta enormemente difficile… Si tratta di identificare il momento in cui si può filmare: per me questo è, come dicevo, un processo arduo e doloroso”: è molto bella questa cosa, e testimonia della sincerità di Rosi. Però, e facendo i conti con le tante cose che a me non sono piaciute, anche questo pensiero, che mostra una sensibilità fuori dal comune, può a conti fatti trasfigurarsi in quella visione idealizzante e un po’ colpevole che vuole abbellire una realtà sfortunata e a mio parere molto più brutta di quella mostrata. E in questo senso anche lo sguardo dall’alto è come se volesse ridonare nuovo sguardo, nuova dignità e quindi nuova vita a delle persone emarginate, più che mostrarne le contraddizioni. Gran bel pezzo, comunque. Appassionato e pieno di stimoli. Ciao!