El Sicario, Room 164 è il lungo monologo, girato quasi senza interruzioni, di un killer pentito del narcotraffico messicano. Il film si basa sull’articolo: The sicario scritto da Charles Bowden e pubblicato da “Harper’s Magazine” nel 2009. Presentato quest’estate al Festival di Venezia nella sezione Orizzonti, El Sicario ha ottenuto da allora molti premi e riconoscimenti. La quarantesima edizione dell’IFFR mostra il film in questi giorni nella sua sezione Bright Futur: un’occasione per vivere un’esperienza cinematografica fuori dal comune.
Gianfranco Rosi è attratto dalle frange estreme dell’esistenza umana, da personaggi marginali e sa avvicinarsi a loro senza emettere dei giudizi aprioristici con una disponibilità assoluta nello sguardo e nell’ascolto, con una rara implicazione personale costruita sul rispetto dell’altro. Se il regista non avesse passato tre anni di preparazione viaggiando a più riprese a Benares sulle orme del suo protagonista – il barcaiolo Gopal – spendendo con lui giornate intere sul Gange, nel suo primo straordinario documentario Boatsman (1994), se in seguito non avesse passato altri quattro anni della sua vita a condividere la quotidianità di una comunità di persone alla deriva nel deserto californiano integrandosi a loro al punto da diventare invisibile per Below sea Level (2008), non sarebbe mai riuscito a darci un film tanto intenso, forte e sconvolgente come El Sicario-Room 164.
Pur muovendosi per definizione su un terreno incerto e periglioso, sottoposto al caso e agli imprevisti, il documentario diventa, nelle mani di un artista, una scienza esatta. Nel caso de El Sicario le riprese dovevano effettuarsi, per ragioni di sicurezza, in un unico luogo; il personaggio doveva imperativamente essere irriconoscibile; il tempo delle riprese era estremamente limitato. Queste condizioni di partenza sembravano non lasciare a priori molte opzioni. El Sicario si svolge nella stanza di un motel al confine fra Stati Uniti e Messico. La stanza 164 diventa il set del film: il regista toglie i quadri dalle pareti, copre le poltrone con dei lenzuoli bianchi trasformandola in un contenitore neutro. Su questo sfondo epurato si staglia la figura del sicario. L’uomo è vestito di nero e la sua testa è coperta, ugualmente, da un panno nero; spicca solo il bianco delle mani, unica parte visibile del suo corpo. Il nostro sguardo si posa costantemente su queste mani prese a disegnare e a scrivere tutto il tempo e, osservandole nel loro candore innocuo, stranamente ci dimentichiamo che proprio queste mani hanno materialmente perpetrato innumerevoli misfatti, omicidi, torture. La messa in scena sembra qui limitarsi a poca cosa, ma proprio per questo, diventa essenziale: guidato dalla sua intuizione e dalla sua esperienza Gianfranco Rosi riesce a scegliere quella porzione di spazio, quella distanza che, pur creando un’intimità fra noi ed il personaggio, ci permette di respirare e di osservare. Osservare, al di là del racconto, i movimenti spesso convulsi delle mani, ascoltare, di tanto in tanto, quei profondi sospiri che interrompono, per un istante, il flusso incessante della parola.
Nonostante la staticità forzata di una grande parte delle inquadrature la nostra concentrazione resta vigile e tesa dal primo all’ultimo minuto del film. Le confessioni del sicario si organizzano come una paradossale conferenza-lezione sull’orrore, banalmente quotidiano, della vita di un killer professionista. El Sicario si nutre della tensione costante fra l’immagine reale che percepiamo sullo schermo e un altrove costantemente richiamato dal racconto dell’uomo che crea un fuori campo virtuale, ma non per questo meno possente, nello spazio mentale di ognuno di noi. Il timbro caldo e profondo della sua voce, la locuzione chiara, ben articolata e la costruzione molto coerente della narrazione contribuiscono ad accrescere la potenza evocativa delle parole. Dominato dalla grafomania del suo protagonista El sicario è anche, inaspettatamente, una graphic novel, un fumetto dell’orrore: mentre parla, il sicario disegna ininterrottamente su un grosso quaderno rivolto in direzione dell’obiettivo, traccia schemi di quanto ci sta raccontando e chiarifica il suo discorso schizzando, come su una lavagna di scuola, organigrammi, strategie d’attacco di un gruppo di killer in un dato luogo, mostra il modo in cui un sicario professionale spara su una macchina in corsa. Con la sua grafia dal tratto infantile l’uomo riempie freneticamente, pagine e pagine di schizzi, indici, sommari, scalette. Spinto da un’inarrestabile slancio nevrotico, il sicario passa una seconda volta il suo pennarello su questi disegni; traccia linee di connessione fra vari punti per esplicitare la dinamica di un’azione o ingloba in un insieme un disegno disegnando un cerchio.
In un crescendo inarrestabile passiamo dalla curiosità delle prime inquadrature, all’ascolto interessato dei metodi con cui i trafficanti di droga effettuano le loro reclute servendosi, per addestrare e formare professionalmente i loro accoliti delle istituzioni stesse dello stato, alla spiegazione dell’organizzazione del potere e della struttura del gruppo, per approdare nella seconda parte del film al racconto dei metodi concretamente impiegati dai sicari per uccidere e per torturare le loro vittime. La violenza, la crudeltà di quanto ci viene esposto raggiunge a tratti un livello di orrore al limite del sopportabile e culmina nelle scene in cui il sicario si alza dalla poltrona su cui era seduto fino a quel punto per recarsi nel bagno e mostrarci in loco, mimando i fatti realmente accaduti, il suo modus operandi. Veniamo così a scoprire, con un certo raccapriccio – il regista stesso lo scopre in quel momento – che la stanza scelta dal sicario come location per le riprese era una stanza utilizzata dall’organizzazione per imprigionare e torturare varie vittime.
Delle brevi inquadrature sul paesaggio della città vengono ad interrompere di tanto in tanto, il ritmo del racconto situando i fatti in uno spazio geografico tangibile. Il ritmo, la tensione ed allo stesso tempo il respiro del film è dovuto all’eccellente lavoro di montaggio di Jacopo Quadri, già prezioso collaboratore del regista in Below sea level. Solo qualche veduta d’insieme di Ciudad Juarez, grigia e piena di polvere come un enorme cimitero, e due o tre riprese di case, le famigerate casas de securidad quartieri generali segreti, luoghi di reclusione e sepoltura dei trafficanti di droga, vengono ad interrompere l’atmosfera da confessionale che si instaura nella stanza 164. Ancora più importanti però sono delle brevi cesure – delle dissolvenze in nero – che sopravvengono, come delle boccate d’ossigeno, proprio nei momenti in cui la tensione del racconto sembra raggiungere il parossismo.
Inevitabilmente El Sicario solleva delle questioni morali: ci si può chiedere cosa abbia spinto quest’uomo a parlare, ci si può anche chiedere cosa egli si aspetti dalla prassi del film. E poi, noi spettatori crediamo a quanto ci racconta e se sì, lo giudichiamo, lo accusiamo, riusciamo infine a dargli l
a nostra assoluzione? Il perdono è possibile in un caso come il suo? Oppure non ci poniamo queste questioni, perché in fin dei conti, quest’uomo resta confinato in un universo che è, per noi spettatori, nonostante tutto più di finzione che reale….
El sicario, room 164 sonda il territorio oscuro e confuso fra il bene ed il male, ne tasta i limiti porosi e incerti senza emettere nessun giudizio, cercando semplicemente di mostrare l’insondabile complessità dell’essere umano. Lungi dalle banali codificazioni di un’intervista, l’incontro con l’altro supera qui la semplice registrazione di fatti e vicende e diventa un’epifania dolente dell’anima umana.