di Fabrizio Croce /“ One evening as the sun went down
And the jungle fires were burning,
Down the track came a hobo hiking,
He said, “Boys, I’m not turning
I’m heading for a land that’s far away
Beside the crystal fountain
I’ll see you all this coming fall
In the Big Rock Candy Mountain…”

I versi naïf di questa bucolica e sognante canzoncina folk per bambini vengono cantati con una tenerezza e un trasporto, come una melodia ancora più dolce e sognante di quello che probabilmente è nell’originale, dalla voce e dal volto di una giovane donna che si sta rivolgendo ad un bambino, a sua volta completamente perso da quel suono, quello sguardo e quella melodia, come un piccolo Ulisse o, meglio, un Telemaco più giovane, che si abbandona alle trame sonore della sua Circe/Penelope di cui è indiscutibilmente, senza tempo e senza condizione, l’uomo più importante , l’unico da tener legato a se per la vita.
Ora noi spettatori possiamo vedere qualcosa che a quel bimbo completamente smarrito nell’innamoramento filiale ovviamente non arriva, il senso di realtà che strappa la maschera rassicurante alla madre e ne rivela i tratti di una donna non curata, stanca, stressata, con una patina di tristezza e preoccupazione che innesca subito un corto circuito, una disconnessione visivo/sonora tra il mondo evocato dalle parole (Big Rock Candy Mountain) e quello che si manifesta non solo nelle sembianze logorate della ragazza madre ma anche in quella della piccola stanza in cui sembra consumarsi tutta l’intensità e l’unicità del rapporto madre-figlio che, in particolare nella prima parte del racconto, oscillerà tra l’Assoluto della relazione che sta all’origine del modo con cui ogni essere umano percepisce la realtà che lo circonda e le sfumature più inquietanti di una condizione estrema dove l’assurdità e il paradosso per sopravvivere soppiantano il principio di realtà, e tutto può valere il contrario di tutto, con i salvatori, le vittime e i carnefici che si scambiano i ruoli, il bandolo di una matassa di lucidità e follia, da districare una volta tornati nel tempo e nello spazio della realtà ordinaria.
Room si presenta, archetipicamente, come una fiaba gotica, con l’Orco cattivo ,la fanciulla da salvare intrappolata nella stanza/torre inaccessibile e l’eroe, piccolo ma grande, come potrebbe essere un Pollicino o un Kirikù precipitato troppo presto dentro una dimensione “adulta” di mondo, dov’è costretto ad adoperarsi per tornare a far regnare la Pace, la Giustizia e l’Amore.

Room 4
In questo gioco di specchi e di rimandi tra realtà e immaginazione la Madre/Fanciulla diventa anche una nuova Alice persa nel paese delle (non) meraviglie, il racconto esplicitamente citato all’interno del film che è la chiave con cui Ma spiega al figlio ( non ci sono nomi ancora, l’unica identità concessa loro è quella relazionale, una madre e un figlio) non solo il modo in cui è caduta dentro il Mondo\Stanza, con quella piccola finestra inquietante, distante e silenziosa che ne sovrasta il soffitto e che sta a parafrasare il buco dentro cui cadde l’Alice di Lewis Carrol; “Ma” fa credere al suo Pollicino qualcosa ancora più incredibile del campo di concentramento/Paese dei balocchi che Benigni raccontava in presa diretta al figlio ne La vita è bella , perché questa volta il rito della caduta dentro una realtà altra, alterata e rovesciata nella percezione, diventa il Mito fondante della nascita di un microcosmo-una madre, un figlio e la stanza in cui vivono-che è il solo mondo possibile e immaginabile, ripiegato completamente su stesso, in un luogo dove non ci sono specchi a voler negare qualsiasi alterità o differenza, e dove la quotidianità si celebra ritualmente con il saluto che il piccolo compie la mattina verso ogni singolo oggetto contenuto nello spazio, una possibilità per definire il più possibile l’idea di un Io e non rimanere schiacciati dal vincolo di un legame assoluto: una madre, un figlio e lo spazio in cui vivono.
E l’Orco cattivo dal rassicurante e famigliare nome di “Vecchio Nick”, appare allo stesso tempo come il solo padre possibile, che procaccia il cibo per la sopravvivenza ed è capace anche di dispensare doni, perché tutto il resto non deve essere visto( e dunque esistere) dentro quel prescritto e precario equilibrio affettivo.
Tra l’altro, come ne La vita è bella il piccolo protagonista scorgeva nascosto da dietro una grata il padre portato alla fucilazione dalle SS continuando a non distinguere tra il gioco e la tragedia, anche per il bambino di “Room” la visione della violenza contro la madre da parte del Vecchio Nick è sbirciata confusa da dietro l’anta di un armadio. Ma poi accade qualcosa che cambia la direzione della storia e traghetta la narrazione dal territorio sospeso e simbolico della fiaba, seppur gotica, a un’accelerazione da thriller in cui il piccolo Jack , al quale possiamo dare finalmente un nome come si fa con tutti gli eroi grandi o piccoli che siano, è portato ad acquisire velocemente la consapevolezza che la stanza, il solo mondo possibile, è una prigione, che la madre è stata presa con la forza dal mondo “reale”, dove ci sono altre persone in carne ed ossa e non bidimensionali come quelle dentro la scatola/ tv , altri spazi, altri luoghi e altri oggetti, e che il Vecchio Nick è davvero l’Orco che l’ha rapita e reclusa.

Room2
Quello che rende prezioso ed unico “Room” rispetto a tanti altri film, europei o americani, che si ispirano a fatti di cronaca anche di scioccante impatto mass-mediatico (il riferimento è qui al caso Fritzl, un padre austriaco che segregò in uno scantinato e violentò per anni la figlia fino a farle concepire sette bambini) sta nella scelta di non rinunciare alla dimensione sospesa, onirica, favolistica , anche nel momento in cui il mondo chiuso della Stanza e di Ma e Jack si apre all’esterno e ne capovolge di nuovo la prospettiva: ciò che fino a quel momento abbiamo sempre visto dalle fessure degli occhioni curiosi e allertati di Jacob Tremblay, uno di quei “mostruosi” bambini/attori americani in grado di rendere le più sottili sfumature di un personaggio complesso pericoloso anche per un navigato professionista, rimane inalterato e si intreccia più intimamente alla forma, si fa cifra stilistica della regia di Lenny Abrahamson, una delicatezza di contatto e una pacatezza di ritmo che non nega il realismo o la concretezza anche brutale, delle situazioni, come il ritorno di Ma nella sua famiglia di “origine” dilaniata dal dolore, dal senso di colpa e dall’impossibilità di comprendere l’enormità del trauma e dei suo effetti post.

Room 3

C’è il continuo muoversi sul crinale tra meraviglia e orrore, il semplice e l’incomprensibile, l’immaginazione non più come strumento per rimuovere e ridefinire i confini psichici ed emotivi di una realtà insostenibile, ma come risorsa per elaborare l’accaduto e superarlo la scena di Jack che si taglia i capelli lunghi e ne dona la forza alla madre come un novello Sansone (di nuovo torna il Mito per raccontare un passaggio esistenziale) e al tempo stesso si differenzia in un’immagine più maschile e adulta, è uno dei momenti più intensi e toccanti nelle storie di cinema tra madri e figli.
Tornando alla filastrocca iniziale, la storia del vagabondo su un furgone che evoca l’esistenza di una terra mitica di divertimento e benessere, Big Rock Candy Mountain, è giusto dire che a cantarla con una voce dolce e spezzata è Brie Larson: una ricerca in rete su di lei vi dirà che ha cominciato da adolescente come aspirante pop star per teenager e poi ha vivacchiato tra tv, cinema indipendente e qualche ruolo secondario in film hollywoodiani. Per questo è sorprendente l’incisività con cui ha incarnato l’assoluto dell’ amore materno a cui si immola totalmente il suo personaggio, i lampi di furore e amorevolezza di una leonessa troppo giovane e già troppo ferita, il crollo fisico e psicologico di fronte al sentimento di non appartenere a nessuna realtà, quella della Stanza e quella del Mondo, il rimpianto per quello che sarebbe potuto essere, il disorientamento per quello che è e il terrore per quello che sarà …. e in un’intervistà Brie ha dichiarato che la sua carriera non ha mai decollato proprio perché non la ritenevano abbastanza carica per fare la protagonista o abbastanza eccentrica o curiosa per fare la caratterista.
Ecco, la parabola della carriera della sua protagonista ci dice qualcosa di ancora diverso sul significato di Room:Non possiamo capire la portata di un evento straordinario e fuori dalla norma come un trauma, se non partiamo dall’essenza profonda e riconoscibile della nostra ordinaria, comune natura di essere umani.

One Reply to “Room-C’è tutto un mondo intorno…”

  1. ho visto il film ieri e l’ho ripercorso con la lettura della tua recensione. E’ incredibile come tu raggiunga i più nascosti significati (forse aggiungendone perfino di nuovi) e le più profonde emozioni in modo così fluido, dettagliato e sentito. Complimenti Fabrizio, una bellissima recensione per un film molto bello, e pensare che tutto sembra scaturire dalle allegre malinconiche note cantate meravigliosamente dalla mamma al suo bambino, guardando la finestra in alto, dal buio della prigione

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