Alla vigilia della sesta edizione del Romadocfest, il primo festival romano interamente dedicato al documentario che si svolgerà a Roma alla sala Trevi dal 25 maggio al 2 giugno, abbiamo incontrato Luca Franco, che ne è il presidente e che lo ha fondato insieme a Francesca Cantarutti, Sebastiano Bazzini e Simone Riccardini. Oltre a organizzare il festival da sei anni, Luca Franco è anche uno studioso di cinema documentario.
Quest’anno il tema del concorso internazionale è la violenza: lo avete scelto prima o sono stati i materiali arrivati a imporvelo?
No, di solito il tema lo scegliamo prima perché vogliamo esplorarlo attraverso il documentario, cioè vogliamo vedere se il documentario, o la realtà veicolata attraverso le immagini, riesce ad articolare un discorso dandone una visione sufficientemente completa. Di solito non è così, però noi vogliamo cercare di capire sia i limiti della forma-documentario sia il limite proprio di un festival del documentario che voglia cercare di spiegare la realtà. Secondo me già siamo in partenza un po’ perdenti, però è una scommessa che va fatta. Mi spiego meglio: se tu, come è il mio caso, credi che esista la società dello spettacolo è un po’ un ossimoro voler descrivere la realtà, però è una sfida che va fatta, lo sbaglio è rinunciare in partenza. Bisogna cercare di far venire allo scoperto queste contraddizioni.
Quindi raccontare la realtà attraverso la violenza… quali paesi, quali realtà toccate in particolare e quale tipo di violenza volete esplorare?
Quello che ci sta molto a cuore è chiaramente la rappresentazione della violenza, per questo abbiamo inserito la rassegna sui mondomovie, genere in cui la rappresentazione della violenza e la violenza della rappresentazione sono al loro massimo. Tra l’altro sono documentari che non solo hanno fatto un sacco di soldi, ma sono gli unici documentari italiani conosciuti nel mondo: hanno inventato uno stile, hanno fatto venir fuori tante contraddizioni…
Cos’è esattamente un mondomovie?
I mondomovie sono quei documentari derivanti dai cinegiornali che hanno messo in serie e sfruttato spettacolarmente gli episodi più perturbanti di quel momento: la violenza, il sesso e le cose esotiche, quindi tutto ciò che attira facilmente l’attenzione dello spettatore. Non a caso abbiamo organizzato una tavola rotonda che si chiama “Eros e Thanatos in diretta: come i mondomovie hanno educato la televisione” (venerdì 25 maggio alle 18.00). Il mondomovie ti faceva vedere le esecuzioni, gli animali scuoiati, le operazioni donna-uomo o uomo-donna, gli incidenti nei gran premi, le abitudini sessuali strane… Il capostipite Mondo cane (1961) di Cavara, Jacopetti e Prosperi, vinse il David di Donatello come miglior produzione italiana e ancora sta facendo i soldi in giro per il mondo.
Che differenza c’è con lo snuff movie?
Che nello snuff movie, almeno in teoria, non c’è messa in scena. Nei mondomovie invece quello che si vede non è vero: qualcosa, qualche esecuzione forse è vera, ma tutte queste cose come l’uomo mangiato dal leone, il bonzo che brucia, si è poi dimostrato che erano messe in scena, ricostruite. Questa è la violenza spettacolare, spettacolarizzata. Ed è stato un esperimento che ci siamo inventati noi italiani, che ha disvelato una contraddizione del cinema, il voyeurismo, e l’ha spinta ai massimi livelli. C’è il trailer di Turbotime (Antonio Climati, 1983) che dice: “Non ci prendiamo per il culo, ogni volta che guardiamo un gran premio vogliamo vedere l’incidente!”… E sono molto violenti anche nella fattura perché sono manipolatori, perché hanno lo sguardo ironico, la musichetta che allude… sono violenti proprio dentro, come dire…
Come molta televisione di adesso, in effetti, che sollecita gli istinti più bassi in maniera quasi plateale, senza ipocrisia… se pensiamo a certi reality show in cui i partecipanti devono nuotare in mezzo ai topi o mangiare carne cruda…
In televisione l’ipocrisia c’è sempre, basta pensare all’eliminazione di Ceccherini dall’Isola dei famosi per una bestemmia o ai salottini di controcanto in studio, lì l’ipocrisia è a piene mani: c’è un voyeurismo che lì non viene assunto mentre invece nei mondomovie c’è consapevolezza, l’ipocrisia c’è ma viene disvelata… c’è una trasmissione di Celentano, recente, che mi ha ricordato un mondomovie perché, in una delle sue famose clip, faceva vedere un’esecuzione per condannare la pena di morte e mostrava i cuccioli delle foche uccisi a bastonate per fare un discorso ambientalista: il mondomovie è proprio questo, questa è l’eredità del mondomovie. La televisione, anche quella considerata “alta” come quella di Celentano, è mondomovie. Secondo me è il caso di fare una grossa riflessione sulla rappresentazione della violenza nella società dello spettacolo: la rassegna sui mondomovie è l’occasione giusta per farlo.
Oltre alla violenza della rappresentazione, che è il tema di fondo dei mondomovie, quali altri tipi di violenza incontreremo nel festival?
Be’, abbiamo ad esempio un documentario, L’ultima cena del milanese Marco Tagliabue che è una bellissima, devastante inchiesta sull’anoressia, in cui è chiaro che queste ragazze non hanno più un rapporto con il loro corpo ma con la loro immagine; il corpo diventa quindi un ostaggio di loro stesse. Poi c’è la violenza della famiglia tradizionale sui singoli in Every Good Marriage begins with Tears , cioè “ogni buon matrimonio comincia con le lacrime”, dell’inglese Simon Chambers, sulla storia di due ragazze pakistane che vivono a Londra, sposate per procura che devono tornare in Pakistan a sposare due sconosciuti… poi c’è The Burning Wake di Giacomo Cesari che è un film su un performer, John Kamikaze, che agisce sul dolore, molto bello, sperimentale anche nello stile. È fatto molto bene, ci ha sorpreso..
Poi c’è Ado d’ailleurs, francese, che racconta la fatica di un immigrato afgano a Parigi. La verdad de frente al mundo, invece, l’unico documentario classico che abbiamo, tratta del terrorismo americano a Cuba: l’abbiamo inserito perché nessuno aveva mai messo in fila tutti gli atti terroristici che hanno fatto gli americani a Cuba: ci sembrava giusto metterlo perché di solito tutti se ne scordano. Poi c’è Abandonatij, spagnolo, corto ma tremendo che segue come una camera stylo i bambini che vivono nelle fogne a Bucarest, e si pippano la colla: bellissimo, non c’è commento, una cosa molto secca, molto dura, di 25 minuti… i ragazzini hanno dai 6 ai 10 anni, una situazione terribile. In Les travestis pleurent aussi due travestiti a Parigi raccontano la loro vita: il protagonista, un travestito che sembra Tyson in un corpo di donna, è un ecuadoriano molto simpatico: il documentario comincia allegramente poi alla fine ti accorgi che c’è un disagio, una violenza a stare in questo corpo di donna e poi anche una discriminazione mostruosa: non possono trovare una stabilità, un’identità.
Long time long place parla di un paesino in Germania dove è successo un omicidio i cui abitanti sono tutti disadattati: uno dei sopravvissuti a quest’omicidio ricostruisce e descrive la violenza, la bestialità che c’è in questa piccola comunità. È molto cupo… Katharina Bullin è la storia di una campionessa di pallavolo della Germania est che ora è diventata un uomo non per scelta ma per tutti gli ormoni che gli hanno dato: quindi una violenza di regime. Poi l’ultimo, His Big White Self, di Nick Broomfield che 10 anni fa aveva fatto un documentario sui neonazisti sudafricani e ora è tornato per vedere cos’è cambiato. Nich Broomfield è un grandissimo reporter che incontra le persone, le segue, le provoca, le fa parlare.
Nella tua esperienza di selezionatore che idea ti sei fatto delle persone che fanno documentari? Li fanno perché non riescono a fare film di fiction oppure hanno la vocazione al documentario, oppure ancora sono dei giornalisti che approfondiscono? La seconda domanda riguarda i generi documentaristici: prima hai parlato di “unico documentario classico”: quindi tutti gli altri come li definiresti? E quali sono le tendenze più moderne?
Dunque, facendo la selezione fra circa 200 film, ho visto che c’è di tutto. C’è anche quello fortunato che parte con la telecamera per un altro motivo, poi si ritrova in una situazione particolare e filma tutto… i più bravi però sono quelli che non accendono subito la telecamera: vanno lì, conoscono, si fanno un’idea della situazione e accendono la telecamera solo l’ultimo mese, dopo che hanno conosciuto tutti, hanno vissuto le situazioni e hanno cercato di capire. Quelli che arrivano con la telecamera accesa e la usano come un’arma si riconoscono subito. Ci sono anche quelli come Broomfield, o anche come Michael Moore, che arrivano con la telecamera, provocano, fanno parlare la gente e la stanano, però si mettono in gioco personalmente…
Sono più giornalisti d’assalto…
Sì però quelli bravi, anche in questo genere, cercano sempre di entrare in contatto con la persona: Michael Moore, quando è andato da Charlton Heston o dal capo della Nike, non è che gli ha detto “Sei uno stronzo!”: ha cercato di parlare, di entrare in contatto, gli ha detto “Io ti provoco e tu mi rispondi perché devi dare delle risposte alla gente che io in qualche modo rappresento”. In Italia un omologo è Beppe Grillo, che infatti aveva fatto Te la do’ io l’America, un po’ in questo modo…
A metà tra comico e documentarista…
Esatto, secondo me Beppe Grillo è molto simile a Michael Moore. Se tu vedi The Big One inizia con Michael Moore che fa vedere tutti gli assegni mandati ai candidati alla presidenza firmati ad esempio “il conservatore Abortisti satanici” e lui fa vedere: guardate, l’ha versato in banca!
Ci sono quelli che si preparano troppo e quindi fanno una sceneggiatura troppo strutturata che finisce per forzare la situazione…. Ci sono quelli che partono con l’idea del reportage, poi magari gli viene bene perché riescono a entrare in contatto e allora realizzano un documentario. Ci sono quelli che vedono una situazione e poi la ricostruiscono, esattamente come facevano i pionieri del documentario, a cominciare da Flaherty che prima vedeva gli eschimesi impegnati nella caccia e poi la rimetteva in scena.. Come Buñuel in Tierra simpan: siccome la capra non cadeva, gli ha sparato per farla cadere… infatti è considerato quasi un mokumentary, cioé un finto documentario.
Ci stanno anche le cosiddette docusoap, che hanno la forma della soap però sono documentari. Noi ce n’abbiamo una fuori concorso che è La chiusura del bar di Vezio di Mariangela Barbanente: dura tre ore e racconta la chiusura del bar dietro a Botteghe oscure: noi l’abbiamo diviso in sei puntate da mezzora. Anche Every marriage begins with Tears ha un po’ la struttura della telenovela perché c’è la figlia che non si vuole sposare e allora litiga con la madre, allora si chiude in camera, poi arriva il padre… tutto questo un po’ ricostruito un po’ è vero… e questa è una tendenza abbastanza moderna. Un’altra tendenza molto moderna che in Italia non si è molto sviluppata è quella del documentario privato: l’unico esempio italiano è Un’ora sola ti vorrei di Alina Marrazzi, bellissimo. Ne avevo visto anche uno all’IDFA (International Documentary Film Amsterdam) che si basava sui diari privati e sui filmati super8 di una madre, la madre del regista, che a un certo punto muore; il padre dopo un mese si sposa con la sua segretaria e abbandona la casa di famiglia. All’inizio il padre sembra un grande stronzo, poi pian piano, attraverso i diari, si viene a scoprire che la madre negli anni Sessanta si faceva gli acidi, faceva le orge, ne faceva di tutti i colori e insomma alla fine la figura del padre cambia radicalmente perché è stato vicino a questa donna fino alla fine e poi nel momento in cui è morta si è messo con questa segretaria, è andata in Florida ma ha continuato a mantenere la famiglia…
Ma queste opere secondo te si possono definire documentari? In fondo Un’ora sola ti vorrei è un documentario sulla madre della regista ma allo stesso tempo è quella che in letteratura si chiama autobiografia… io non lo considererei propriamente un documentario, è un film in prima persona…
No, però sono documentari perché quando sono fatti bene riescono veramente a fare la piccola storia quindi ti fanno rivivere attraverso la storia della madre di Alina Marrazzi, che impazzisce, quanto sia stata complessa l’emancipazione della donna dagli anni ‘60 ai giorni nostri: rivivi un pezzo di grande storia attraverso la piccola storia di un essere umano.
E poi è un documentario perché è la realtà, di una persona e di una nazione allo stesso tempo.
Anche se ormai è molto difficile distinguere la quantità di realtà e quella di finzione…
C’è un bellissimo libro di Bill Nichols, il più grande studioso anglosassone di documentari (purtroppo poco tradotto in Italia), che si chiama Blurred Bondaries e che si pone questi problemi. Adesso hanno tradotto per il Castoro uno dei suoi libri, Introduzione al documentario, che tenta di sistematizzare tutto il mondo documentario. Lui definisce, distingue, offre una griglia interpretativa che tu puoi rompere, però ce l’hai.
Ti facevo queste domande perché recentemente è uscito questo bel film di Moroni, Le ferie di Licu (LINK), che io non chiamerei documentario nel senso che non ha nulla da invidiare ad un bel film di fiction. Molti distributori hanno rifiutato di distribuirglielo perché è un documentario. Si fa fatica a far capire al grande pubblico che un documentario può essere avvincente, commovente ed emozionante come e più di un film di fiction. Tu che ne pensi?
Noi siamo andati all’IDFA e siamo rimasti sconvolti perché c’è di tutto. Secondo Bill Nichols anche Schindler’s List è un documentario perché è un drama-documentary: cioè sono delle cose reali, factual dice lui, veicolate attraverso la fiction. Se ci pensate i più grossi successi degli ultimi anni sono basati su storie vere: The aviator, che racconta la storia di Howard Hughes, è un drama-documentary.
Be’ ma allora moltissimi film sono ispirati a storie reali: non basta per dire che sono documentari…
Secondo la divisione anglosassone invece sono documentari: anche Gangs of New York, basato su un libro di cronache, è un drama-documentary. Schindler’s List è la storia della vita di Schindler…
Oltre al contenuto, ci sono delle marche stilistiche, delle caratteristiche formali, per riconoscere un documentario?
No, l’unica cosa che distingue i documentari è il riferimento alla realtà: sono sempre avvenimenti reali o riflessioni, o punti di vista su avvenimenti reali.
Non c’è per esempio il tentativo di mantenere un rapporto oggettivo tra la macchina da presa e la realtà?
Be’, c’è da dire che il documentario dovrebbe avere una missione rispetto al cinema, che è quella di far riflettere sulla realtà: non è solo entertainment, dovrebbe avere un feedback: si fa un documentario su una data situazione per cercare di cambiarla… infatti il documentario ha sempre aspirato ad andare tra le cose serie, come le chiama Nichols, cose come la giurisprudenza, che hanno un effetto sulla realtà… alle origini la macchina da presa era considerata alla stregua di un termometro…
Però c’è il rischio che i filmati, invece di incidere sulla realtà, finiscano per soddisfare semplicemente quel desiderio voyeuristico di cui si parlava prima; cioè l’intenzione è quella di denunciare o di demistificare, in realtà si abitua lo spettatore a cibarsi di questi “scoop” e a rimanere indifferente di fronte alle cose vere…
Questo è il pericolo della società dello spettacolo e per noi credere ancora che si possa descrivere la violenza attraverso la rappresentazione della violenza in qualche modo è una sfida… però, dato che avete detto questa cosa mi ricollego a una sezione del nostro festival che si chiama “la violenza della rimozione” e che tenta di riflettere proprio su questo. Una sezione curata da Giuliana Catamo e dall’associazione Mappe che è la mediateca antimafie, sugli sbarchi dei clandestini. Sappiamo infatti che la violenza è subdola e quindi attraverso la riproposizione di immagini addormenta lo spettatore. Se tu vedi tutti i giorni al telegiornale gli sbarchi dei clandestini, alla fine lo consideri una cosa normale, mentre dietro a quelle immagini ci sono donne ridotte in schiavitù, traffici d’organi, cose mostruose… e per noi solo un’immagine.
A proposito di mondomovie, nella televisione recente ci sono degli esempi clamorosi: ad esempio i filmati-interrogatorio fatti dai genitori ai figli vittime di abusi nella scuola di Rignano, o la ricostruzione della telefonata della Franzoni al pronto soccorso… c’era una trasmissione su Retequattro che aveva rimesso in scena questi interrogatori con voci di attori che interpretano i bambini e i genitori…questo che cos’è se non un instant- mondomovie?
Questa è la spettacolarizzazione estrema, è la società dello spettacolo, cioè l’alienazione totale tra ciò che succede veramente e l’immagine di ciò che succede. Ciò che diceva Debord è quanto mai vero adesso: cioè la Franzoni non esiste più, il suo dramma non esiste più. Esiste Vespa con i suoi plastici che sono gli stessi sia se siamo a Nassiryia sia a Cogne. Con l’ideologia c’è stato il già pensato, con la società dello spettacolo secondo me c’è il già sentito… c’è quest’alienazione ormai totale rispetto alle cose che succedono; un buon documentario, come Un’ora sola ti vorrei, può se non eliminare quest’alienazione, almeno avvicinarti a qualcosa di un po’ più sincero.
Ti aiuta a prendere coscienza, anziché alimentare l’alienazione…
Esatto perché Vespa semplifica, un documentario fatto bene invece articola, complica… ti mette in discussione.
Anche un bravo giornalista può aspirare non tanto a scoprire la verità attraverso un’immagine, ma almeno a mostrarne la complessità, le contraddizioni. Oggi prevale invece la tendenza a sostenere una tesi, una narrazione, un racconto, e mai a rispecchiare questa complessità.
Negli anni ‘60 era così: data una tesi e la voce fuori campo del documentarista onnisciente, la tesi viene dimostrata.. Pian piano, con il “documentario diretto” la cosa si è articolata sempre di più, l’argomento veniva sviscerato in tutte le sue sfaccettature, soprattutto umane.. adesso i documentari più interessanti sono quelli dove sì, c’è una tesi, però il documentarista non ne fa un mistero, non si ogget
tivizza. Ci sono state un sacco di polemiche in Italia tra Elephant (che è un capolavoro del drama-documentary) e Bowling a Colombine: molti hanno parlato della dittatura dello sguardo di Michael Moore, mentre lo spettatore sa bene sin da subito cosa pensa Michael Moore, che andava a vedere e si metteva in gioco: non è che quando c’era il feedback lui si ritraeva…
Chi ha finanziato il Romadocfest quest’anno? Avete faticato a reperire fondi? Quale potrebbe essere un circuito virtuoso per aumentare la visibilità dei documentari?
Quest’anno abbiamo avuto delle grossissime difficoltà a reperire fondi perché gli enti locali non è che si interessino molto, ci sono un sacco di festival in questo periodo. Quest’anno per la prima volta abbiamo uno sponsor privato, che si chiama Ioseliani e sta al Pigneto (è un negozio di gioielli). Siamo molto contenti di aver iniziato a lavorare con gli enti privati perché purtroppo gli enti pubblici non garantiscono una dignitosa sopravvivenza da un anno all’altro. Chi potrebbe farlo, cioè la direzione generale per il cinema al Ministero, non ci ha mai dato i soldi. Proveremo a partecipare al programma Media, però è complicatissimo perché sono tutti molto eurocentrici, devi garantire che prendi due film belgi e quattro olandesi… vogliamo muoverci nella direzione di un festival popolare, portando tutti i tipi di documentario, anche quelli mainstream. Non abbiamo nessuna intenzione di lavorare per una nicchia, anche perché se la gente fa a botte per andare a sentire una lezione di storia o di filosofia all’Auditorium, secondo me va a vedere anche un festival di documentari, basta saperglieli veicolare. Anche in televisione è così, non puoi mandare un documentario allo sbaraglio. Un tempo Claudio G. Fava introduceva i film e in tre parole ti faceva venire voglia di vedere Buñuel, che non è esattamente un cineasta facile. Stessa cosa bisognerebbe fare prima di mandare in onda un documentario: non una cosa didattica ma una presentazione densa che ti spiega più o meno quello che stai per vedere. Secondo me la gente ha voglia di queste cose. Con i soldi che si spendono per un reality si possono acquistare 50 documentari uno più bello dell’altro in tutto il mondo. Su queste cose bisogna investire per attirare gente: noi siamo convinti che a Roma il pubblico potenziale è tanto ma non abbiamo soldi per fare promozione. Stiamo lottando come pazzi per far uscire qualche articolo…
Poi bisognerebbe stabilire un circolo virtuoso con la televisione: ci sono documenti bellissimi sepolti nelle Teche, come le inchieste di Joe Marrazzo: vorremmo ritirarli fuori l’anno prossimo… Ora c’è un’associazione che si chiama Doc.it che sta facendo lobby, sta sostenendo lo slogan “la Rai partecipa ai festival e i festival partecipano alla Rai”. Bisognerebbe creare uno scambio virtuoso…