Per arrivare alla Sala Trevi, che anche quest’anno ha ospitato il RomaDocFest, bel festival romano del film documentario, si attraversa una parte di Roma ricca di storia. Quella Fontana di Trevi, opera barocca e di mitologia marina che promette il ritorno nella città a chiunque getti una moneta sul fondo della fontana, zeppa di turisti e di acqua. Roma è piena di acqua, vecchi acquedotti e fungaie tuttora in funzione ci scorrono sotto i piedi, e la fontanella romana, quella con il naso lungo, è il simbolo del festival. Tanti buttano monetine e rimangono lì seduti, a dar spazio al tempo dilatato dei desideri, altri mangiano un panino farcito mentre scattano foto un po’ a caso: la digitale, si sa, non fa economie, e capita anche di vedere un balletto di gente con vestiti che paiono stracci, fanno girotondi e cantano, probabili seguaci dell’Hare Krishna. Ancora fotografie, ancora vociare, mi viene in mente un film post-tutto. Sorrido. Mi avvio verso la sala con in mano della pizza con le zucchine, cattiva, la butto a metà, anzi, mi ritrovo a contare fino a tre per arrivare al terzo quarto. Entro, dò un saluto complice alla direttrice della sala, un’occhiata smaliziata al programma vicino al bancone e, sorpresa, sopra ci trovo bottiglie di spumante e pasticcini, sorrido ancora, soddisfatta.
La sezione “La violenza della Rimozione” è composta da filmati e documenti che ci mostrano i viaggi degli immigrati clandestini verso il nostro paese. Il movimento ci scorre davanti agli occhi, questa volta, e le immagini ci testimoniano di giovani uomini e donne senza valigia che fuggono da guerre, parenti uccisi, persecuzioni politiche e familiari, miseria, alla ricerca di un posto dove pensare di poter vivere in pace. L’Italia, nei racconti, diventa il paradiso e per arrivarci pagano gli scafisti, i nuovi mercanti, dai 3.000 ai 10.000 dollari. Tra di loro non si chiamano clandestini, ma pakistani, cingalesi, sudanesi, e dopo qualche ora sono Krenar e Muhammad (extracomunitario, parola ufficiale e fino a qualche tempo fa di dizione difficile, fa pensare ad un extraterrestre). I mercanti, invece, preferiscono autodefinirsi dei benefattori, in questo modo raccontandosi la propria storia – lo si fa spesso.
Il punto di vista scelto dai documentaristi è quello dell’inchiesta, quasi un entrare nella pancia del lupo: vecchi scafi che cadono letteralmente a pezzi, in questo caso. Le immagini ci restituiscono il volto e l’umanità dei migranti, le loro storie di violenze subite e di speranze che nel corso del viaggio diverranno sempre più dei desideri lontani, irriconoscibili, in una sospensione spazio-temporale (la perdita del conto dei giorni e della rotta) per niente metafisica ma fatta piuttosto di ossa e denti rotti, di labbra secche (1 bottiglia d’acqua data dai benefattori a 20 persone dopo 3 giorni di fatica immane), di amici e fratelli morti per le condizioni inumane del viaggio, per la noncuranza e l’organizzazione improvvisata degli scafisti (la tragedia di Portopalo: 283 morti), per i blocchi navali decisi dal nostro civile governo in accordo con impresentabili personaggi (la Sibilla italiana che sperona la Kater I Rades albanese: 100 morti). E quindi la parola viaggio assume un significato diverso, toccare terra diventa fatto non più così salvifico. Dice Khan: “Noi non saremo mai normali. Molti parlano delle difficoltà di traversare i confini, i pestaggi e tutto il resto. Ma non sono questi i soli problemi del viaggio. La difficoltà è trovare un posto dove cominciare una nuova vita insieme agli altri, in contatto con i vicini, normale. Ma questo non è possibile. Rimaniamo isolati, estranei, stranieri. Conoscevo le difficoltà del viaggio. Quello che non sapevo è che il viaggio ti cambia. Non potrai più essere ciò che eri, anche se torni alle condizioni di partenza”.
E la macchina da presa, quasi un cineocchio (nel documentario Traversée Clandestine, ad esempio, la videocamera rischia più volte di essere danneggiata e confiscata, partecipando anch’essa, in tal modo, alla migrazione) continua a scrutare volti, ascoltare storie, scavare in ciò che non si vede, ciò che non si vuole vedere, recuperando in tal modo la memoria collettiva e restituendo un po’ di dignità a chi è solo un numero perso nel mare. E’ solo di questi giorni il via libera del governo Prodi al recupero dei corpi dispersi nel fondo del mare siciliano. Solo “grazie” a un ritrovamento di un documento d’identità, impigliatosi nella rete di un pescatore, e della successiva inchiesta del giornalista Giovanni Maria Bellu, questi numeri potranno forse avere un’identità, seppure postuma. Quello che si vuole è che questo processo di recupero non si fermi perché, come tutti i procedimenti di dissabbiamento del rimosso, non si basa solamente sui risultati, mai così sicuri, ma sulla necessarietà del processo, sull’impossibilità di continuare a credere a dei semplici errori, o effetti collaterali, alle archiviazioni di esseri umani sotto la voce fantasmi (esemplare, su questa specie di processione irreversibile, è il film Mysterious Skin di Gregg Araki: anche lì fantasmi ed extraterrestri non mancano). I sintomi, le scorie degli omicidi accumulati bucano i confini posticci dei blocchi navali, dei limiti dettati spesso dalla convenienza più che dalla sicurezza. Gli abissi esistono, e continuano a restituirci i corpi di chi ha chiesto alla moderatamente isterica e sempre più paurosa Europa un aiuto per esistere. Di questo si sta parlando. Dei relitti, fatti di pelle, cicatrici aperte e piccoli sogni, che le frontiere non riescono a respingere con l’efficacia sperata. Le frontiere ossessivamente perseguite e che, grazie a normative se non altro ambivalenti, vengono in un sol colpo abbattute all’interno dei paesi amici e innalzate compatte contro i migranti (lo spazio Schengen, per esempio).
– Da Emigrazione ’68, documentario di Luigi Perelli sull’emigrazione italiana in Germania e in Francia, fuori concorso al RomaDocFest. A far da contrappunto ai tristi racconti di viaggi verso il nord c’è una marcetta acida, composta dal bravo Franco Potenza, e la sovraesposione di molte immagini, risolte in un bianco che ottunde e respinge, per niente naturale, rende perfettamente lo spaesamento degli emigranti.
Noi siamo quello che ci danno. La partenza, il lavoro, il ritorno. Il paese nel frattempo cambia, siamo stranieri là e siamo stranieri pure in patria. Diventiamo zingari, senza cuore. Migranti che lavorano, chissà per chi. Ha partorito tre figli morti perché anche dentro la pancia non c’è cibo. –
Un filo rosso sembra legare questi lavori lontani nel tempo: la necessità, probabilmente, di recuperare un’intenzione, l’urgenza di uno sguardo che non sia mera registrazione della realtà (che spesso si presta a derive metafisiche già ampiamente esplorate) quanto piuttosto indagine tesa a svelare i rapporti di forza tra le cose e le persone, uno sguardo politico, in qualche modo, che più che dimostrare una tesi cerca di mostrare un processo: chiudere la prassi violenta della rimozione (operata, non a caso, da chi possiede mezzi finanziari e politici in collusione con chi produce a ritmo battente immagini false determinanti a creare coscienze false) e al contempo rimuovere le censure e le mistificazioni, le archiviazioni, come unico viatico possibile alla consapevolezza e a un cammino più autentico. I risultati non sono certi. Scavare e vedere ad occhi aperti quello che giace nel fondo del mare è appunto un’urgenza che si può seguire, senza moduli prestampati a cui aderire, magari stimolata da un ritrovamento improvviso, un’evidenza cui non poter sfuggire, ma che conta in quanto processo, in quanto farsi. E incidere, magari intervenendo sulla realtà (dal di dentro, con l’inchiesta, o dal di fuori, con film e documentari c.d. antinaturalistici. Ma i confini del come guardare – i diversi generi oramai riscontrabili anche all’interno del film documentario – sempre più spesso si confondono fecondamente. Un po’ quello che succede anche tra film di fiction e film documentario) è la nuova inevitabile sfida.
Proprio su questo ragionare si è peraltro concentrato gran parte di quanto visto nell’affine festival parigino “Cinema du réel”, che ha preceduto di poco il festival romano. Si è visto, in questo caso, l’assordante effetto dell’assenza del soggetto -donne che sfuggono alla miseria dei loro paesi, uomini indebitati per il viaggio fino in Italia, minorenni senza più radici -, che non viene mai visto, figurativamente, ma solo raccontato attraverso le parole e le facce normali di chi lo ha incontrato per un breve tratto del suo migrare. Fa l’effetto di un film dell’orrore, questa mancanza (l’invisibilità di chi nel nostro mondo esiste in quanto raccontato dai normali visibili), togliendo terreno alla sicurezza dell’abitudine a vedere tutto, le innumerevoli cronache di pianti e disperazioni che la televisione ha reso, oramai, sempre più fatti da spiare, con relativa deriva morbosa, e che a lungo andare producono solo profonda indifferenza. Jean Luc Godard ha parlato spesso di come l’inquadratura sia una questione morale. Un carrello non è mai neutro, c’è sempre un'intenzione. E a ben guardare il suo film più famoso, quell’ A bout de souffle tutto montaggio (geniali i raccordi sbagliati per rappresentare il disorientamento), è uno dei primi film che ci mostra i parigini direttamente nelle loro strade (gli sguardi dei passanti nella cinepresa), alle prese con la quotidianità di una metropoli in pieno, moderno, sviluppo. Quasi una docufiction, si direbbe.
Esco dalla sala, dò uno sguardo ai resti, attigui, delle antiche cisterne d’acqua, ora recintate per consentire le visite turistiche. Saluto Laura e Luca e seguo una deviazione del passo. Mi ritrovo ancora una volta davanti alla Fontana di Trevi, c’è meno gente, un ragazzo in jeans e bomber senza maniche, occhi lunghi, raccoglie con una scopa mucchi di monetine accumulate nel fondo della fontana – l’acqua scorre e gli echi delle fontanelle vi si sovrappongono in una musica troppo abbondante – arrossisco e tolgo lo sguardo. M’avvio verso casa disorientata, non dopo aver schivato l’ennesimo, impudico click, con una mappa geografica e affettiva mutata: il dopo qualche cosa – che rimanda a un altrove evasivo-, diventa irreversibilmente presente, realtà che prende forma e muta nel farsi. L’unica realtà in cui, davvero, poter incidere con uno sguardo, testimone e artefice.
I film
– IL NAUFRAGIO FANTASMA(2007, 100’) di Carlo Lucarelli e Giuliana Catamo Paola De Martiis, Sandro Patrignanelli. Regia di Alessandro Patrignanelli
– APPRODO ITALIA (2007, 45’) di Christian Bonatesta
– MARE NOSTRUM (Italia, 2005, 50’) di Stefano Moncherini
– TRAVERSÉE CLANDESTINE (Francia, 2005, 50’) di Gregoire Deniau
–EMIGRAZIONE 68: ITALIA OLTRE CONFINE (1968, 32’ b/n) di Luigi Perelli
La pizza con le zucchine è un gravissimo errore; un semplice pomodoro e mozzarella e vai sul sicuro.
tu dici che sono film d’inchiesta senza sostenere una tesi. mi sembra strano. l’inchiesta presuppone una tesi. uno parte almeno da delle ipotesi che i fatti (sempre che sia possibile considerarli in modo univoco e per farlo è necessario acquisire un punto di vista) possono più o meno confermare….
-Andrea!
-Mah, pensavo più che altro a delle domande. Ci si pongono delle domande, non paghi delle risposte agli atti, e si agisce per avere chiarimenti. In ogni caso l’inchiesta è “genericamente qualunque indagine preordinata al fine di raccogliere informazioni su un determinato oggetto”, dice. E semmai parlerei del rischio di un’eccessiva intenzione polemica, riscontrabile ad esempio in Mare Nostrum. Ma tesi, in questi documentari fatti in un paio di casi da giornalisti, proprio non ci sono.
meglio le zucchine, e senza mozzarella, prima di un film.
alessia, batti lei!!!