Uno Zampa minore, quello di Frenesia dell’estate? Meno sarcastico di Anni Facili e meno possente di Processo alla città? Meno divertente di Ladra Lui ladra lei e meno elegante de La Romana? Probabilmente, ma uno Zampa, comunque, sempre dignitoso ed utile, per le cose che mette nel film e per il modo in cui lo fa. Uno Zampa all’italiana? Per l’ambientazione della pellicola e per la suddivisione di questa in episodi? Si, certo, ma anche per le caratteristiche dei personaggi raccontati: viziosi, fragili, perdonabili, divertenti, galli inguaribili, piuttosto italici. Più riusciti alcuni e decisamente meno altri, ma pazienza. Uno Zampa meno ambizioso di altre volte e molto estivo, sul modello de Il Sorpasso, di Una Vita difficile, de L’ombrellone, che non è ancora stato realizzato, allora, perché Frenesia dell’estate è del ’64, e L’Ombrellone è del ’65: straordinario, nel suo segnare la fine del boom, nel suo farsi certificato cinematografico dell’arrivo della congiuntura. Molto più di un film di Ettore Scola, che fa per titolo proprio La Conigiuntura, ma che di quel periodo racconta poco o nulla. Davvero poca cosa, quel film, e per tre volte, invece, ‘62, ‘63, ’65, Risi è preciso su quei primi anni ’60, anche se L’ombrellone è il più fiacco dei tre ceritificati. Comunque complimenti, meritati davvero, a questo grande autore nostro, capace di raccontarci, senza aver nulla da invidiare a Billy Wilder, come era l’Italia di allora, e come erano gli italiani che la abitavano. Toscana d’agosto anche per lo Zampa di Frenesia dell’estate, come per il Risi de Il sorpasso e di Una vita difficile. L’ombrellone, invece no, era riviera romagnola, proprio come Estate Violenta di Zurlini, ma molto più affollata (e soprattutto senza bombe) quella di Risi, perché in L’Ombrellone la guerra è lontanissima, mentre nel film di Zurlini siamo proprio nell’estate del ‘43, e il paese sta per voltare le spalle al regime. Semmai c’è la consapevolezza, in L’ombrellone, che il miracolo, se davvero c’è stato, adesso, di sicuro, è finito.
Ma di bombe, invece, è pieno Frenesia dell’estate, innocue e gustose bombe alla crema, che la morbidissima e sensuale Sandra Milo, protagonista l’anno dopo proprio de L’ombrellone, vende qui per campare, con un simpatico carretto, sull’antispiaggia versiliana occupata dai bagnanti, turisti di un’Italia agli sgoccioli di boom. E a proposito di boom, una battuta c’è, nel film, che fa cenno al miracolo economico. Se la giocano due ragazze: «Son tempi duri – dice una; e l’altra le fa – come tempi duri? Ma ‘un ci sta ‘l boom?»
Quattro episodi, in Frenesia dell’estate, intrecciati tra loro attraverso una bella galleria di personaggi, come nella tradizione della commedia all’italiana degli anni sessanta, dopo il successo de I mostri, ancora Dino Risi, del 1963. Varie storie, tagliate in frammenti e rimontate intrecciate, a spezzoni l’una accanto all’altra, collegate tra loro. Quello più divertente e saporito, in un film non privo di elementi farseschi, è certamente quello che vede per protagonista Vittorio Gassman. Il nostro è uno slanciato capitano dell’esercito, terrorizzato dall’idea di essersi innamorato di Gigì, un travestito da cabaret che si rivelerà, invece, essere una deliziosa fanciulla. Memorabili e, per una serie di comprensibili motivi, anche assai attuali, le gag del personaggio gassmaniano alle prese con una attrazione “immorale”. Almeno due gag di alto livello, le più divertenti del film. La prima in un locale notturno, con il gruppo di vitelloni viareggini che rimane spiazzato dalla bellezza dei corpi che sfilano. Si possono facilmente immaginare i commenti dei galletti italiani. La seconda, con Gassman che bacia una bellezza mozzafiato seppur convinto che si tratti di un uomo. Non servono a molto le parole della donna, tra l’altro interpretata dalla bellissima e importante attrice francese Michèle Mercier. Niente, lui è straconvinto che si tratti di un uomo, e questa cosa lo terrorizza fino a farlo inciampare sulla spiaggia e a portarlo ad insultare la meravigliosa creatura che pochi istanti prima aveva conflittualmente baciato. «Finocchio….». Andrà in crisi come maschio, quel povero Gassman che di lavoro faceva marciare i soldatini e si sentiva tanto macho e realizzato. Solo alla fine, quando la sua vita avrà ormai preso una piega ben precisa, egli si convincerà che quella bellezza irresistibile era del tutto femminile
, e che lui, come maschio latino, non aveva fatto nulla di sbagliato. Sospiro di sollievo, ma anche relativa rabbia e tanto rimpianto, perchè nel frattempo, per mettere a posto le sue sicurezze sessuali, l’ufficiale si è sposato con una donna di cui non era mai stato veramente innamorato.
Altro simpatico episodio del film è quello con Amedeo Nazzari. Nell’articolo su Processo alla città avevamo accennato alla bellezza virile e statuaria di questo divo nostrano grande negli anni ’40 e in parte dei ’50, vicino, per caratteristiche fisiche e sguardo, a certi divi americani di quegli anni. Avevamo brevemente parlato della sua stagione d’oro e del modo in cui Fellini, con Le notti di Cabiria, aveva ironizzato sulla sua parabola discendente. Ecco, in questo film, l’autoironia nazzariana continua a produrre risultati sorprendenti, perchè l’attore sardo gioca con se stesso nei panni di un indossatore ormai attempato, ex marciatore su Roma e millantatore di titoli nobiliari. Per l’età che ha, l’organizzatrice delle sfilate, nonchè sua ex amante, gli impedisce di sfilare in costume, vista una linea non più da giovanotto, e gli impone di indossare solo abiti adatti a uomini di una certa età. Non ne vorrà sapere per gran parte del film, questo buffo e ancora affascinante Amedeo, di stare alle richieste del suo capo/ex findanzata, e preferirà fare la fame, nel vero senso della parola, piuttosto che ammettere le verità che lei gli ha sparato in faccia senza troppi complimenti. Tra il bisogno di mettere qualcosa sotto i denti, il desiderio di dimostrare di essere ancora giovane e quello di far ingelosire la propria ex fidanzata, questo maturo Nazzari se la cava benino e risulta assai simpatico. Tra l’altro siamo nello stesso periodo de Il gaucho, ed anche lì, il mitico Amedeo è davvero eccezionale.
Il terzo episodio, legato agli altri due da personaggi di contorno che si inseriscono nelle vicende dei vari protagonisti principali, vede un giovane Philippe Leroy, nei panni di un grande conquistatore di donne, ma con pochissimo senso degli affari. Insieme ad un improbabile socio, cerca di sbarcare il lunario ma è costretto ad accontentarsi di piccoli lavoretti estivi, e deve rimandare i suoi sogni di gloria a qualche altra futura idea, meglio di quella con cui, insieme al suo compare, ha cercato di conquistare i favori di un imprenditore in cerca di pubblicità. Meglio continuare ad insegnare nuoto, e portarsi a casa un pò di straordinario….
C’è poi, come accennato, la storia di una popolana viareggina che per campare vende bomboloni ai turisti. E’ giunonica ed allegra, morbida e bella. Un giorno, il Giro d’Italia passa proprio per Viareggio ed un ciclista spagnolo, l’ultimo in classifica, cade dentro al carrettino della venditrice. Lei tenta di portarlo nell’albergo della sua squadra, ma a nulla vale il suo tentativo, visto che nessuna delle squadre ciclistiche lo riconosce, e soprattutto nessuno si fa vivo a reclamare questo sfigatissimo atleta. Va da sè che la ospitale frittellatrice è costretta a dare alloggio allo spagnolo, e ci vuole poco perchè tra i due scatti prima l’attrazione e poi l’amore. Questo episodio è piuttosto macchiettistico e caricaturale, di grana piuttosto grossa, decisamente dozzinale. Lo salva l’espressività di una Milo molto a suo agio nelle vesti di una donna accogliente e delicata.
La sceneggiatura di questo film è scritta da nomi importanti come Age e Scarpelli, Piero De Bernardi, Leo Benvenuti e lo stesso Mario Monicelli. Il risultato, tuttavia, non supera la soglia di una commedia estiva e frizzante, ma senza particolari chiaroscuri. Per lunghi tratti il ritmo e la qualità del racconto si abbassano vistosamente, e tra infedeltà, amori, vacanze di poveri e buffi disgraziati, battute e luoghi tipici da commedia italiana anni ’60, si passa un’ora e quaranta di bianco e nero gradevole, con alcune gag preziose che alzano il valore del lavoro. Un pò di gallismo all’italiana, la bizzarria di certe figure che sembrano quasi parodie di se stessi, bastano a questo film forte di un Gassman in più dentro una rosa già cospicua di bravi attori. Si respira una certa atmosfera da festa collettiva, il segno di un periodo di relativo entusiasmo.