In questo Festival che ha avuto il merito di rendere omaggio alle grandi famiglie d’arte italiane, dopo Steno, De Sica e Rossellini, è arrivato anche il gran giorno di Fabrizio De André. Sono stati presentati al pubblico, alla presenza di Dori Ghezzi e del figlio Cristiano, il documentario Effedia. Sulla mia cattiva strada di Teresa Marchesi e, a seguire, il film Amore che vieni amore che vai di Daniele Costantini, tratto dal romanzo di Fabrizio De Andrè e Alessandro Gennari. Dori e il figlio non si sono trattenuti alla proiezione del film di Costantini, alla quale era invece presente il cast tra cui Agostina Belli, Filippo Nigro, Donatella Finocchiaro, Tosca D’Aquino. Dori Ghezzi, infatti, non ha gradito che il film di Costantini fosse previsto nella stessa serata del documentario da lei prodotto. Film (“pregustato”, si fa per dire, in una visione privata) che lei non ha apprezzato così come all’epoca non le era piaciuto nemmeno il libro. Costantini ha risposto offeso alle dure parole della Ghezzi, dicendo che avrebbe preferito che certe cose la signora le avesse tirate fuori in precedenza e non la sera della prima. Insomma “E polemica fu”, giusto per ravvivare gli ultimi giorni del Festival.

Ma torniamo ai film. Il documentario della Marchesi è un viaggio nel mondo poetico di De Andrè attraverso le sue canzoni. Ogni brano, infatti, contiene in sé un universo di personaggi, pensieri, emozioni: Marinella, Piero, Bocca di Rosa rappresentano, come spesso nell’opera di De Andrè, gli ultimi degli ultimi da cui il libertario artista genovese era profondamente affascinato. Il tutto raccontato attraverso interviste allo stesso Fabrizio, stralci di concerti, momenti di vita ripresi dalle telecamere. Da non perdere due momenti esilaranti: Fernanda Pivano che al Premio Tenco si chiede perché De Andrè venga considerato il Bob Dylan italiano, anziché considerare Bob Dylan il De Andrè americano; e l’intervista a Wim Wenders, grande estimatore di De Andrè, che spera di organizzare un grande concerto a New York in onore dell’artista italiano. Ascoltare le parole di questo grande cantautore, i suoi pensieri, i suoi sentimenti è un’esperienza che arricchisce. Alla fine del documentario è così che ci si sente: più ricchi, nel senso più profondo e alto del termine. Un piccolissimo neo: forse la lunghezza un po’ eccessiva per un documentario.

Amore che vieni amore che vai è invece una sorta di pastiche non realistico, in cui la recitazione è sempre (e forse troppo) sopra le righe, quasi fiabesco, effetto a cui contribuisce anche la fotografia di Alessio Gelsini Torresi. Dove al regista, più che la trama, interessa creare “atmosfere”, quelle della città di Genova, in cui è ambientato il film, con il porto e suoi carrugi; la Genova di De Andrè, la cui anima risplende nelle musiche di Nicola Piovani. Proprio tra questi vicoletti, la più varia umanità, prostitute, papponi, ladri, si incontrano senza mai entrare veramente in contatto tra loro. A fare da collante tra questi personaggi ai margini, la speranza di poter cambiare vita attraverso il “colpaccio”. E il colpaccio, qui, c’è davvero. Un improvvisato pappone, un pastore sardo insieme a un ladro gentiluomo organizzano un colpo che li farà milionari; il colpo riesce, ma il pastore sardo fregherà gli altri due ingannandoli e scappando col bottino. Ma il “destino ridicolo” alla fine ingannerà anche lui. Tra i non molti meriti del film uno sicuramente c’è: aver riportato Agostina Belli davanti alla macchina da presa.

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