Domenica 17, mia personale giornata della memoria. E’ in una fredda e grigia domenica di gennaio, che è iniziato questo viaggio speciale tra due luoghi fantastici di Roma: uno a me ancora sconosciuto e scoperto grazie al Teatro del reale di Alessandro Rubinetti – il cimitero acattolico di Ostiense – e uno che amo da sempre (almeno dal mio trasferimento romano) Villa Medici. Due luoghi belli e suggestivi che aprono squarci impagabili sulla città, ma anche luoghi dove si respira forte il sussulto della storia, il batticuore della cultura. Non solo viaggio fisico tra due luoghi emblemi di una Roma ispiratrice di arte e poesia, ma anche un viaggio dei sentimenti, dei luoghi della mente dove non ci sono cellulari che squillano, ma immagini fuori del tempo, perché appartengono al tempo.
A Villa Medici veniva omaggiato un grande maestro di tutto il cinema contemporaneo e francese in particolare da poco scomparso: Eric Rohmer. Ho appreso la notizia della morte da una breve email ed è stato come apprendere della scomparsa di una persona cara. Con lui ho, infatti, trascorso più di due anni della mia vita: una compagnia virtuale, naturalmente, fatta di film, letture, immagini che sono andate a comporre parte della mia tesi. Era bello sognare di far parte di un gruppo simile a quello famosissimo di giovani critici che da I Cahiers du Cinéma sono passati dietro alla macchina da presa, dando vita alla mitica Nouvelle Vague. Ma i nostri anni ’90 non erano gli anni ’60 parigini… E soprattutto io non mi chiamo Rohmer, né Truffaut o Godard, ma neppure Varda (per citare almeno una donna). Mi sarebbe piaciuto conoscerli, o forse è meglio che così non sia stato. Immaginavo l’incontro tra due timidi: io e Rohmer (che si è sempre nascosto dietro uno pseudonimo, che ha sempre evitato di andare a festival e presentazioni): un intenso scambio di sguardi imbarazzato? Quattro occhi bassi che cercano di fuggire lo sguardo altrui? Mani nervose che giocavano coi ricci che tormento sempre? Forse è meglio che i nostri incontri si siano svolti sul piano del sogno, della fantasia… Domenica con emozione e un pizzico di trepidazione sono andata a Villa Medici a vedere una lunga videointervista – inedita in Italia – a Rohmer, di cui conoscevo alcuni stralci. Sala non troppo piena, ma non è certo un regista popolare. Si spengono le luci…
Sullo schermo appare Parigi, così amata e filmata da Rohmer, la Tour Eiffel (mi torna voglia di rileggere la mia tesi che ha proprio al centro l’immagine della città francese nei film della Nouvelle Vague, Rohmer compreso), una voce fuori campo femminile ci introduce partendo dalle coordinate temporali – 18 maggio 1993 – mentre una carrellata passa su palazzi parigini fino ad arrivare all’interno di una appartamento, elegante, vuoto… Solo il rumore di una macchina da scrivere… La voce c’introduce all’incontro, ci dice che Rohmer ha accettato l’invito dopo avervi pensato, incontro a cui si è preparato scrupolosamente perché avrebbe raccontato il suo cinema… Viso lungo, bella voce, tono molto rapido a volte da mangiarsi le parole… Sguardo sicuro verso chi parla e con generosità Rohmer si racconta e racconta la sua arte, il suo personale modo di scrivere, comporre le storie, il rapporto coi luoghi e coi personaggi… Accompagnandosi con spezzoni di film, registrazioni audio di prove di dialogo con gli attori (che non vengono scelti con provini, ma osservati nella loro vita), immagini, appunti… Mostra i quaderni colorati (e il colore di copertina ha un legame con il film, come per esempio il colore beige del pane per La fornaia di Monceau) in cui prende appunti. Piccoli per i soggetti che appunta in viaggio, più grandi per la stesura dei dialoghi, del trattamento.
L’intervistatore è Jean Douchet in camicia bianca e nera. S’inizia parlando dell’appartenenza alla Commedia francese della tradizione o piuttosto, come afferma il regista, alla tradizione inglese. Al suo rapporto con il suono e la musica che devono sempre essere realisti nei suoi film. Così come la luce. Per arrivare all’idea di spazio visivo che viene ampliato dalla memoria dello spettatore che vede nel suo ricordo anche ciò che sta fuori dall’inquadratura. Il cinema di Rohmer ha pochi movimenti di macchina, dice di amare soprattutto macchina fissa e panoramiche per seguire i personaggi, ma tutto dev’essere giustificato dal film. Per esempio ne Il ginocchio di Claire usa molti zoom, movimento che corrisponde allo sguardo e al naturale adattamento dell’occhio agli spostamenti, per creare sensualità.
Il documentario è in lingua orginale, senza sottotitoli e confesso che quasi due ore d’intervista sono difficili da seguire appieno, ma il tempo vola e risalgo verso l’esterno appagata dall’incontro con un grande maestro e uomo del proprio tempo la cui opera sopravviverà all’uomo.
Con questo pezzo hai reso un omaggio a Rohmer molto più vicino allo spirito della sua opera di qualsiasi disserzione teorica….è come se avessi scritto dal punto di vista di una delle sue eroine.
Bravissima Chiara!