di CHIARA PALMISANI/ Ho visto Anatomia di una caduta, di Justine Triet, pochi giorni dopo il femminicidio di Giulia Cecchetin. Anche quel giorno, come tutti quelli che si sono susseguiti a partire dall’11 novembre, data della sua morte, mi sentivo scossa, arrabbiata, turbata da questo orrendo avvenimento. In questo stato d’animo mi sono ritrovata nel buio della sala e ho iniziato a seguire il film, Palma d’oro a Cannes 2023, che parla di una donna, Sandra (Sandra Hüller), accusata dell’omicidio del proprio marito Samuel (Samuel Theis) e del processo che la vede imputata e in cui è coinvolto, come testimone, il figlio di 11 anni, l’ipovedente Daniel (Milo Machado Graner). Oltre che farci chiedere per tutto il film se la morte di Samuel sia stata accidentale, voluta da lui stesso oppure effettivamente causata da Sandra, quello che fa Justine Triet è lasciarci per tutto il tempo in uno stato di scomodità, in cui l’unica certezza è l’ambiguità della realtà. Cos’altro ci resta se non una profonda insinuazione del dubbio su come stanno effettivamente le cose, se l’unica persona che può testimoniare l’accaduto è un bambino? E si tratta di un bambino profondamente combattuto su quanto ricordi del giorno della morte del padre, lui stesso dilaniato dai dubbi sulle cause di questa e, per giunta, non vedente. Ci resta solo, forse, la possibilità di sospendere il giudizio, per spostare l’asse del discorso non tanto su cosa è vero e cosa no ma sul senso delle cose, sul perché un uomo e una donna sposati possano ritrovarsi a rappresentare l’uno per l’altra l’inferno, sul perché un marito geloso e insicuro, rispetto al successo della moglie come scrittrice e frustrato per la propria incapacità di scrivere, la accusi di non assumersi abbastanza responsabilità nella cura del figlio (che è cieco, a seguito di un incidente di cui il padre si sente profondamente colpevole, per via di una sua mancanza di accudimento), del perché un marito, nonostante la moglie non approvi questa scelta, decida di trasferire la propria vita e quella dei familiari in una casa isolata in montagna in Francia e ancora del perché sia voluto tornare nel suo paese di origine, lasciando Londra, città della mediazione culturale e linguistica tra lui e la moglie di origine tedesca. Insomma, il film ci pone davanti mille interrogativi con maestria e ci mostra i giochi di potere, i soprusi, i rancori e il bisogno di sopraffazione che all’interno di una coppia possono essere messi in atto.
L’ambiguità che permea questa “anatomia della caduta”, espressione che può essere intesa letteralmente come indagine su una morte per caduta dall’alto o come analisi dello sprofondare di una relazione di coppia, non ha nulla a che vedere con la storia di Giulia Cecchetin e sulle modalità e le cause della sua uccisione, sulla quale non vi è più alcuna ambiguità. Eppure, una lite tra i protagonisti del film, in cui Samuel cerca di accusare di plagio la moglie, per essersi ispirata a una sua idea progettuale per scrivere un libro e la colpevolizza di essere per lui la causa della mancanza di “tempo per sé” ed essere troppo concentrata solo sulla sua carriera di scrittrice, mi è sembrata emblematica di una “normale” dinamica di coppia, dove l’uno rinfaccia all’altra quelle che magari sono le proprie mancanze. E se è vero che tutti, donne e uomini, possono arrivare a provare il bisogno di “disprezzare” l’altro per sentirsi migliori o a invidiare il successo dell’altro, soprattutto in un momento di personale insuccesso, nella realtà, a differenza che nel cinema, in cui tutto può succedere, poi, a morire, per mano di qualcuno – che non è in grado di accettare il nostro rifiuto dinnanzi all’imposizione di essere rispondenti al suo desiderio e plasmare la nostra esistenza sulla base del suo bisogno – siamo noi.
Sul caso di femminicidio di Giulia Cecchetin è stato detto molto e non sempre sono state dette cose di buon senso, purtroppo, ma credo valga ancora la pena mantenere aperto il discorso su cosa questo ennesimo episodio di violenza su una donna abbia scatenato nel dibattito pubblico. E’ stato detto che a colpire più degli altri casi di femminicidio a cui quasi quotidianamente ormai assistiamo è stata la giovane età della vittima e del suo assassino, ma anche l’estrazione sociale e il livello culturale delle famiglie di provenienza. In effetti, non parliamo di persone a cui si possono associare pregiudizi razziali o di classe secondo il pensiero benpensante. Si stratta di un ragazzo e una ragazza di famiglie borghesi, nati e cresciuti nella tanto-ben-difesa-da-questo-governo famiglia tradizionale. Per cui, non è stato possibile, per chi avrebbe voluto avere gioco facile a farlo, dare la colpa di tutto agli “stranieri che stuprano e uccidono le nostre donne” o a chi ha una professione religiosa diversa da quella cattolica. Questo caso ha costretto anche chi non avrebbe mai voluto farlo a confrontarsi con l’evidenza dei fatti: quell’evidenza ben esplicitata dalla sorella di Giulia Cecchetin, che con parole estremamente lucide e dirette, ha fatto quello che quasi mai era stato fatto prima da parte di una parente della vittima di femminicidio, spiegando senza mezzi termini che le donne muoiono ancora per colpa del patriarcato. Elena Cecchetin ha fatto quello che di solito si preferisce che le donne non facciano: ha occupato lo spazio mediatico e ha preso la parola, non è stata zitta e non ha assolto la società dal senso di colpa chiedendoci un minuto di silenzio per la sorella. Ha detto invece “bruciate tutto” e ha detto che l’assassino di sua sorella non è un mostro ma il figlio sano del patriarcato, della cultura dello stupro e ci ha addirittura spiegato, in maniera inequivocabile, cosa si intende per cultura dello stupro: “ciò che legittima ogni comportamento che va a ledere la figura della donna, a partire dalle cose a cui talvolta non viene nemmeno data importanza ma che di importanza ne hanno eccome, come il controllo, la possessività, il catcalling. Ogni uomo viene privilegiato da questa cultura”. E, purtroppo, aggiungo io, questa stessa cultura è anche introiettata da ogni donna e, senza certamente voler mai colpevolizzare per questo le vittime di femminicidio, non possiamo esimerci, come donne, dall’impegno di decostruzione che il superamento di questa cultura richiede e che Elena Cecchetin ci sta chiedendo di assumerci, ciascuna secondo le proprie possibilità e con le proprie modalità. Decostruzione che ormai da molti anni si sta portando avanti grazie alle tante esperienze di femminismo e che ancora richiederà molti sforzi a tutte noi, ma che non potrà mai realizzarsi pienamente senza la presa di coscienza dell’urgenza di un impegno anche da parte degli uomini. Sono pochi ad oggi, ma molto attivi e interessanti, i gruppi di uomini che hanno avviato un discorso di decostruzione della mascolinità tossica, a partire dalla consapevolezza che il patriarcato, oltre a rappresentare uno stato di previlegio, rappresenta al contempo un frame di dettami sociali e culturali e un insieme di aspettative identitarie vincolanti, svilenti e nocive per l’esistenza degli uomini stessi. D’altro lato, però, ben lontani da questi percorsi, portati avanti in Italia, ad esempio da Lorenzo Gasparrini o dal gruppo “Mica Macho”, molti uomini si sono sentiti chiamati in causa dalle parole di Elena Cecchetin, reagendo da maschi feriti nella loro virilità, nel peggiore dei modi, passando dall’attaccarla sul look ad intonare la litania del “Not all men…”, sentendosi in dovere di chiarire che non tutti gli uomini sono assassini (e menomale!). Se è ovvio che non tutti gli uomini sono assassini dovrebbe però essere altrettanto ovvio (ma non lo è) che responsabili di sguazzare nel previlegio di quella cultura che ben ci spiega Elena Cecchetin, fin ad oggi, lo sono stati tutti e che, forse, da poco, alcuni hanno sì iniziato a chiedersi se questo sguazzare non fosse poi così positivo, ma la maggior parte, non solo non hanno iniziato a farlo ma sono ben lontani dal cominciare. E questo lo sappiamo per il numero di donne vittime di violenza maschile e per i commenti dei detrattori di Elena Cecchetin, ma lo sappiamo pure perché tutte le donne, nessuna esclusa, ha subito una qualche forma di abuso psicologico o fisico da parte di un uomo e/o probabilmente conosce qualcuna che lo ha subito, ma quasi nessun’uomo sembra conoscere qualcuno che lo abbia commesso o pensa a chiedersi se lui stesso possa avere mai agito un qualche tipo di abuso.
Personalmente, posso ricordare chiaramente molti episodi delle mie relazioni con uomini, in cui il mio partner ha espresso una qualche forma di possessività, di prepotenza, di espressione di una volontà di dominio o di violenza psicologica. Mi soffermo a dire che il non aver subito violenza fisica non è la conseguenza del mio livello di consapevolezza rispetto a questo argomento, perché, come ci dimostra la padronanza linguistica e culturale che ha sua sorella, Giulia Cecchetin, forse, era una ragazza più consapevole di me alla sua età rispetto alle relazioni tossiche. La consapevolezza non basta per non morire uccisa per mano della cultura patriarcale. Ad ogni modo, posso dire che uomini da me incontrati erano/sono, intrisi da questa cultura al punto da “limitarsi” ad alcuni episodi di violenza verbale.
Ricordo di un ragazzo che voleva impormi di mettere un costume più coprente di quello da me scelto per andare in spiaggia, giustificando questa sua volontà di possesso con una tattica di falsa valorizzazione della mia persona, dicendomi che “non avevo bisogno di mostrare quelle parti del mio corpo al mare perché avevo molto altro di bello”….
Ricordo un ragazzo che utilizzava due pesi e due misure nel considerare le uscite con gli amici/amiche se a farle ero io o era lui. Pur sentendosi giustamente libero di uscire e frequentare delle sue amiche, una volta, dopo avergli detto che ero andata a bere una birra con un collega, mi ha aggredito verbalmente e ha dato un pugno al muro, facendosi sanguinare la mano, per evitare di darlo a me, dicendo che “era diverso”.
Ricordo un ragazzo, che, dopo avergli fatto capire che non provavo molto piacere nel praticare una determinata posizione nei rapporti sessuali, mi ha detto con rabbia che non ero “normale”, perché lui, invece, conosceva molte donne estremante felici di praticare quella specifica posizione traendone godimento.
Ricordo di un fidanzato, che mi aveva chiesto di incontrare per la prima volta i suoi amici, dopo qualche mese che ci frequentavamo, arrivare a urlarmi contro perché, prima di uscire, contrariamente a quando facevo abitualmente, avevo deciso di truccarmi. Ricordo che mi ha detto che “non avevo intelligenza sociale da capire che non c’era bisogno di presentarsi così”, poiché, evidentemente, temeva che agli occhi dei suoi amici potesse venire screditata la sua immagine se si fosse presentato con una ragazza dal suo punto di vista appariscente.
Questi sono alcuni – pochi – esempi di brutti episodi, ma quanti episodi di questo tipo abbiamo vissuto tutte, pensando che erano solo piccole cose senza importanza, come ci dice Elena Cecchetin? E che cosa abbiamo fatto tutte dopo questi episodi? Spesso non abbiamo lasciato questi uomini, perché non ci sembravano validi motivi per farlo. Io stessa, anche se poi li ho lasciati, non l’ho fatto “solo” per quei singoli episodi, anche se sì, per via di un progressivo percorso di consapevolezza per il quale devo ringraziare tantissime donne incontrate nella vita, anche per quegli episodi li ho lasciati, ma tutti o quasi dopo molto tempo e dopo altre prevaricazioni. E ora, qui, vorrei ricordare i nomi di quelle donne, a differenza degli uomini di cui sopra, che con poca probabilità leggeranno questo articolo e che non reputo importante nominare. Vorrei citare una a una quelle donne che per me sono state importantissime come amiche “geniali” o come “madri simboliche” nell’attraversamento del femminismo: Marta Seravalli, Alessia Brandoni, Manuela Fraire, Maria Luisa Boccia, Simonetta Piccone Stella, Lea Melandri, Federica Giardini. Queste donne, incontrate in diversi momenti della mia vita, oltre a quelle incontrate più che altro (o esclusivamente) sui libri, ognuna a loro modo, mi hanno permesso di arrivare a scrivere oggi queste righe, nonostante i tentativi svalutativi a cui alcuni di quegli uomini erano ricorsi. Perché, per tornare alla lite tra moglie e marito, rappresentata in Anatomia di una caduta, il senso del possesso, può portare un uomo al bisogno di screditare una donna in diversi modi, che possono andare dal rinfacciare alla propria moglie l’aver avuto più successo di lui nella vita e, quindi, di essersi emancipata da un ruolo più tradizionale di donna che se ne sta “al suo posto”, quello per lei scelto dal marito, al rinfacciarle di essere inadeguata nel fare una cosa qualsiasi, in cui, di fondo, è lui a sentirsi incapace (nel caso del film, il ricoprire il ruolo di consorte e genitore). E così, alcuni di quei ragazzi, a volte, hanno cercato di svalutare la mia scrittura definendola dozzinale, quando mi sentivo soddisfatta di un pezzo che avevo scritto e che forse li metteva davanti a qualcuna delle loro frustrazioni. Altre volte, al contrario, in momenti in cui sono stata io magari a provare una qualche difficoltà professionale, mi hanno rinfacciato di non essere abbastanza ambiziosa e non impegnarmi abbastanza per “realizzarmi”, perché, probabilmente, loro stessi temevano di non riuscire a farlo e non volevano specchiarsi nella mia fragilità di quel momento. Questi esempi reali, mi domando, sono così lontani dalle dinamiche vissute da Giulia Cecchetin in una relazione che aveva deciso di interrompere?
Certo, io sono qui dopo aver lasciato più di un “bravo ragazzo” e posso scrivere. Lei non più. Questo è un fatto e questo è quello che mi ha spinto a non stare zitta oggi e ad utilizzare la fortuna di poter essere qui per “bruciare tutto”, per lei e quelle che come lei non possono più farlo.
A mia figlia di un anno direi che anche uno solo di quegli episodi è più che sufficiente per interrompere una relazione con un ragazzo. Spero però, vivamente, che interrompere una relazione non rappresenti mai più, né per lei né per nessun’altra, motivo di paura. Sia chiaro: mi piacerebbe, più che mai, poter credere che non dovrà incontrare uomini così. Il rischio, però, è che, tra pochi anni, quando inizierà probabilmente a relazionarsi con dei ragazzi -ma magari farà altre scelte rispetto alle mie?-, la cultura patriarcale non sarà stata decostruita ancora. Effettivamente, serviranno ancora molti e molti anni se, oggi, mentre il paese continua ad essere sconvolto dal caso Cecchetin, il Foglio pubblica un articolo come quello in cui un certo Camillo Langone si esprime così: “3 minuti sono quelli di “Jaded”, video che ho visto mille volte e che ogni volta mi alza il testosterone. Tre minuti molto colorati, girati al sole della California, fra palme e piscine, lusso e lussuria, con Miley che indossa, per lo sguardo del maschio, per la gioia di sé, un costumino striminzito color oro, e sembra che muoia dalla voglia di toglierselo. Vedo Paola Cortellesi e vedo una donna accigliata che mi vuole denunciare, vedo Miley Cyrus e vedo una donna sorridente che mi vuole dare piacere. Sano come sono, non ci devo pensare un attimo.” Ammetto che non conosco la cantante Miley Cyrus e non ho visto il film attualmente nelle sale di Paola Cortellesi, C’è ancora domani, su cui quindi non mi esprimerò, ma il punto su cui intendo soffermarmi non è certo la qualità artistica di nessuna delle due. Il punto è come la stampa dia spazio oggi a un uomo qualunque di arrogarsi il potere di considerare l’esistenza femminile pura appendice del maschio bianco eterosessuale, illudendosi che un’artista di successo possa sentirsi massimamente realizzata facendosi spogliare da lui.
Allora, spero che i genitori dei ragazzi che incontrerà mia figlia, in primis, non leggano Il Foglio, ma sono ben consapevole che il rischio che il contesto sociale in cui lei si muoverà tra pochi anni sia ancora pervaso dalla cultura dello stupro è molto alto. Certo, ora e sempre, per lei e per tutte le altre giovani donne, mantengo accesa la speranza che le cose possano cambiare con il nostro impegno collettivo. E ammetto che questa speranza me l’hanno data anche alcuni uomini incontrati fino ad ora: quei pochi che si sono interrogati sulla portata dei femminismi o che non hanno avuto paura a misurarsi con questi argomenti nel dialogo con me. Sono amici o studiosi, incrociati in diverse fasi della mia vita. Sono Yurij Castelfranchi, Renato Cavallaro e Luca Salmieri, uomini che, anche se in modo diverso dalle donne prima citate, mi hanno permesso di essere qui a scrivere, partendo da me.