[*** ] – Lui: “Cosa ne pensa di questo il tuo Dio?” Lei: “Lui mi capisce di sicuro” Lui: “Ne capisce di cose il tuo Dio.”
Revanche è un polar asciutto e rarefatto, intriso di interrogativi esistenziali, in cui il regista Spielmann si dimostra osservatore lucido del senso tragico e assurdo del quotidiano, di quella sconcertante banalità del male che pervade come un’implacabile coscienza collettiva, il recente cinema austriaco, da Haneke a Ulrich Seidl. Il film apre su un presagio di minaccia imminente. Vienna, quartiere a luci rosse. Alex, autista tuttofare di un protettore, ha una relazione segreta con Tamara, una delle ragazze del bordello. Per dare una svolta alle loro esistenze, progettano una rapina in banca. Il colpo riesce, ma un poliziotto intercetta casualmente la loro fuga e spara. Alle ruote, suppone lui.
Sull’eco dello sparo lo scenario muta e la natura prende il sopravvento: il bosco che circonda un lago isolato, una fattoria, qualche abitazione sparsa. In una di queste vive il poliziotto insieme con sua moglie. La fattoria è governata dal nonno di Alex. La moglie del poliziotto gli tiene compagnia, ed è proprio nella fattoria che incontra Alex, appena trasferito per dare una mano nel lavoro e riflettere in solitudine.
Ancora un frammento di cronologia del caso, una “coincidenza” significativa ma niente affatto accidentale all’interno della struttura mitico-tragica della narrazione. Questioni cruciali come l’illusione del valore dell’individualità, la percezione della perdita e l’elaborazione del lutto, le dualità inconciliabili responsabilità-destino, perdono-vendetta, uomo-natura, sono affrontate senza enfasi retorica, attraverso dialoghi decantati, silenzi pregnanti, la rappresentazione di gesti quotidiani reiterati.
Su tutto un rigore formale che spesso immobilizza la macchina da presa, obbligandoci a fissare, una volta usciti di campo i soggetti in azione, le zone morte, gli spazi vuoti interstiziali tra i personaggi.
La dialettica campo-fuori campo focalizza sulla memoria dell’inanimato, mette in relazione l’uomo con un ecosistema nascosto, permette di scorgere le correnti invisibili che attraversano lo spazio, collegando i protagonisti tra loro e con il mondo esterno.
Il segnale-sintomo che muove tutti gli attori della vicenda è la resilienza. In fisica è la capacità di un materiale di subire un urto senza rompersi. Per estensione definisce la tenuta dell’individuo di fronte a un vissuto traumatico. Ciascuno dei protagonisti di Revanche ha perso qualcosa, si porta la morte dentro. Socializzare il lutto d’altronde non sembra possibile. Non nell’Austria contemporanea almeno, a giudizio del cinema di quel paese.
Si prenda il poliziotto e sua moglie: a vederli assieme, a tavola o nella pseudo-intimità della camera da letto, corrono brividi. Nessuna confidenza o complicità. A cena solo il tintinnio delle posate rompe il silenzio. Ciascuno isolato nel proprio dolore sordo, custode di penosi segreti, incapace di entrare in relazione.
Viene in mente il vicinato smembrato e assurdamente tragico in Canicola di Seidl. Oppure l’ostentata impassibilità che soverchiava il progetto famigliare suicida in Der Siebente Kontinent di Haneke. Ma lì almeno c’era un disegno autodistruttivo silenziosamente condiviso, laddove, in Revanche, le intenzioni e le volontà inconfessabili dei personaggi restano individuali e si annientano a vicenda.
In un paesaggio emotivo così anestetizzato dove è il mancato affioramento del rimosso a dettare le regole del gioco e a presiedere l’orizzonte degli eventi, è naturale che sia il non-verbale a prendere il sopravvento, ristabilendo una sorta di lingua arcaica delle dinamiche interiori, un’ecologia dei flussi emozionali.
Ciò è un gran bene per l’economia stilistica del film: nessuno psicologismo o enfasi retorica, tutto accade nell’inquadratura e a ridosso di essa. Questo approccio fattuale non è un dato immodificabile. Ulteriore pregio del film è la sua capacità di adeguare l'assetto espressivo alle condizioni mutevoli prodotte dalle circostanze della vicenda. Così, la fuga dalla città del protagonista Alex e il suo rifugiarsi compulsivo nel lavoro rurale determina una progressiva astrazione
meditativa della narrazione.
La riconciliazione, sembra suggerire Spielmann, è possibile solo nel silenzio, a partire dalla ritrovata coscienza profonda di una natura, nella cui energia generatrice e primigenia fondersi per ritrovare un senso, seppur precario, all’esistenza. Una dichiarazione di poetica che, curiosamente per questo noir atipico, rimanda al cinema di Ermanno Olmi.
Merito della Fandango aver recuperato per il grande schermo una pellicola del 2007, altrimenti destinata a rimanere confinata ai soliti elitari circuiti festivalieri.