[****] Una sceneggiatura fatta di dialoghi che restano, come l’amore del titolo italiano (Restless è l’originale), una regia introspettiva, propria di Van Sant e un cast che sembra vivere, più che recitare, una storia d’amore fra due adolescenti vissuta in condizioni estreme, che ricorda drammi come Romeo e Giulietta o classici come Harold e Maude.
Restless è un film sull’amore e sulla morte, dove la giovane protagonista Annabel, condannata fin dalle prime scene da un tumore allo stadio terminale, incontra Enoch, un adolescente introverso e un po’ ai margini come lei, ad un funerale e se ne innamora. Enoch ha perso i genitori in un incidente stradale e vive il lutto andando ai funerali di sconosciuti per osservare il volto della morte. Ha abbandonato la scuola e non ha amici all’infuori di Hiroshi, il fantasma di un pilota kamikaze vissuto durante la seconda guerra mondiale che, come lui, ha dunque un rapporto “privilegiato” con la morte. Ciascuno di loro è tanto più vivo quanto porta in sé la coscienza della morte, per trauma come Enoch, per necessità come Annabel, per karma come Hiroshi. Quest’ultimo è il solo forse a sapere fin dall’inizio perché sta accanto all’introverso Enoch, giocandoci a battaglia navale tutte le sere, mentre l’amore di Annabel ne sta cambiando il cuore e rimarginando le ferite. Annabel, infatti, è priva della drammaticità propria di chi sa di avere poco tempo da vivere, affronta la malattia con consapevolezza, ma anche con ironia e saggezza, non perdendo mai il sorriso, l’amore per la vita e la natura. Si professa infatti naturalista convinta, seguace di Darwin, che idolatra come modello, mentre legge testi su specie particolari di uccelli che non hanno memoria del loro vivere e così ad ogni risveglio cantano felici di avere un altro giorno di vita.
Enoch decide di accompagnare Annabel passo dopo passo alla morte, ma come dice Hiroshi in una delle scene più belle del film, “la morte è facile, è l’amore ad essere difficile”. Il film infatti non si sofferma sulla malattia, sulla sofferenza e dunque non ha la pesantezza propria del genere, bensì prova a raccontare la gioia di un amore che nasce, l’originalità di due ragazzi che hanno il coraggio di darsi totalmente ad un sentimento che li trasforma. Van Sant non mostra mai Annabel ed Enoch al PC o al telefonino quasi non importasse l’epoca in cui vivono questi due adolescenti che conducono vite diverse dai loro coetanei, ma certamente più vere e intense. Entrambi sono creature vive e in quanto tali ignare dei limiti del tempo e dello spazio, del dolore come limite o della programmazione come compromesso da sopravvissuti. Loro inventano le giornate con originalità, giocano con la malattia di lei, mentre il mondo attorno a loro irrompe attraverso Elizabeth, la sorella di Annabel, il dottore o la zia di Enoch, a ricordare una scadenza solo apparente. Perché l’amore, quello vero, resta.
Gus Van Sant si cimenta ancora una volta con l’adolescenza, con la sua problematicità che è anche illimitata potenzialità. Ogni scena è una fotografia che racconta, al di là delle parole, la poesia dei sentimenti. La grazia della natura, persino quando appare matrigna; il mistero di boschi; giochi e complicità; racconta paesaggi interiori, si sofferma su treni presi a sassate per gioco, fermandoli in una fotografia. Le foglie cadono in un autunno grigio che contiene gli odori della primavera che arriverà, con o senza di noi, perché la vita è mutamento incessante. Enoch e Annabel la amano veramente, per questo possono accettarne le regole sorridendo. E un sorriso è l’ultima immagine che ci regala Van Sant: quello di Enoch al funerale di Annabel realizzato secondo la sua volontà come una festa, dove tutti possano mangiare e divertirsi.
Qualche curiosità tecnica sulla realizzazione è d’obbligo per un film nato come una pièce teatrale scritta da Jason Lew, amico della produttrice Bryce Dallas Howard, figlia del premio Oscar Ron Howard che con lei e con l’altro premio Oscar Brian Grazer, ha sostenuto e prodotto il film. Non solo infatti la trasposizione cinematografica della prima stesura teatrale è stata sostenuta e sollecitata dalla Howard e da altri amici di Lew, ma il cast e lo staff che ha realizzato il film è in gran parte figlio d’arte: Henry Hopper (Enoch), figlio dello scomparso attore-scrittore-regista Dennis Hopper, è protagonista nonché esordiente sul grande schermo, Schuyler Fisk (Elizabeth, sorella di Annabel) è figlia dell’attrice Sissy Spacek e del famoso scenografo Jack Fisk. E poi Mia Wasikowska (Annabel), ormai nota al pubblico dei cinefili, è una ballerina passata alla recitazione che si esibisce fin da quando aveva nove anni; infine la regia di Gus Van Sant completa il quadro di un set fatto di professionisti o di persone abituate al mondo del cinema, che si sono trovate a lavorare in quell’atmosfera rilassata e collaborativa, notoriamente attribuita al regista. Anche in questo film come già per Milk, Van Sant ha fatto uso della tecnica di dirigere gli attori in performance senza dialogo, facendoli muovere sulla scena in silenzio, interiorizzando le battute ed esprimendo le loro emozioni solo con gli occhi e il volto. Una scena silenziosa per ogni ciak, non solo allo scopo di arricchire il montaggio, ma anche di sollecitare gli attori a sentire, oltre che recitare, le battute e ridare così voce al silenzio di un gesto, di un’espressione, di uno sguardo.