Per fare un quadro ci vogliono una quarantina di euro. Di più no. Per scrivere un libro ce ne vogliono dieci: i soldi dell’inchiostro e quelli per la carta. Se Van Gogh fosse stato un cineasta, quasi sicuramente non ci sarebbe stato nessun Van Gogh. Perché per fare un film ci vogliono i soldi. Già solo per procurare il fenomeno servono una telecamera e dei nastri; più un computer per tagliare ed incollare le immagini. Per costruire bello un libro occorre quasi unicamente una gran testa, per fare grande un quadro occorrono una testa ed una mano straordinarie. Per fare degno un film servono persone che scrivano, che montino, che illuminino, che organizzino, che recitino, che dirigano. Può anche darsi che questo collettivo sia radunato dentro una singola persona ma è un caso talmente raro, che rappresenta sempre un’eccezione. Fatto questo, comunque, stabiliti cioè i costi di produzione e accertata con essi una dinamica diversa nella nascita dei tre prodotti artistici, le tre arti entrano nello stesso terreno ed incontrano lo stesso problema: rendere visibile quanto si è prodotto.
In tutti e tre i casi intervengono interessi personali che gestiscono le ragioni collettive, giuste o sbagliate che siano. Questi interessi sono gestiti da quelli che chiamiamo distributori e che identifichiamo in persone che comprano un prodotto finito per ricavarne guadagno dalla sua mostra a pagamento. In Italia, al momento, esistono due grossi gruppi che si dividono l’intero mercato. Che, cioè, gestiscono la quasi totalità delle sale cinematografiche del paese. Si chiamano Medusa e O1 distribution, e rappresentano i gruppi Mediaset e Rai: Berlusconi e lo stato italiano. Insomma, in Italia il cinema è gestito totalmente da un duopolio. Perché in parecchi casi la cosiddetta distribuzione interviene anche durante il processo produttivo che la precede: finanziando lo sviluppo del film e vegliando affinché tutte le regole che porteranno al successo – e quindi ai soldini – vengano rispettate. Ergo, la gestione del cinema è nel totale ed esclusivo rispetto del mercato.
Di fronte a questa doppia fortezza si pone l’artista (o l’artigiano) al termine della sua opera. In certi casi, quando cioè il prodotto è stato studiato e concepito all’interno di questi potenti edifici, il film entra speditamente e massicciamente nelle sale del paese e nelle teste della popolazione. A volte, spesso, non è così. Ed il sistema di produzione e fruizione che ne nasce si definisce alternativo e cammina su binari periferici, intelligenti, improbabili, astuti, tortuosi, curiosi. In certi casi non sono neppure binari, ma corde da acrobati la cui sottigliezza può produrre un capitombolo che è sinonimo di fallimento economico, oltre che morale. Non possiamo, non vogliamo, non dobbiamo qui parlare di cosa accade nelle gallerie dei pittori e nelle stanze delle case editrici. Vogliamo e dobbiamo parlare di cinema. E il panorama culturale di questa Italia cinematografica è quello di un paese in cui la salute è sorretta da Manuale d’amore, Notte prima degli esami, La cena per farli conoscere, La ricerca della felicità: cinema delle grosse produzioni e della conservazione, cinema della breve emozione programmata e della canzonetta. Un cinema per tutti quelli che rappresentano e costituiscono la realtà più massiccia di questo paese: gente che subisce molte immagini e che riflette poco, perché poco legge e poco ha studiato. Che non si interessa di politica ma ama il calcio. Che preferisce ridere piuttosto che modificare. Che ha l’abitudine di non reagire davanti a tutto ciò a cui non è abituata, di subire passivamente l’offerta facendosi da questa modificare. Non reagendo agli stimoli insoliti, se ne torna sul divano, ponendo i rivoluzionari del linguaggio fuori dal mercato. Questa massa è una risorsa del paese e sta a cuore a tutti: sia a quelli che vorrebbero cambiarla, sia a quelli che la vorrebbero sempre così buona e tonta.
In Italia comandano quelli che la vorrebbero sempre così ed i film che, secondo loro, fanno bene sono i titoli che dicevamo sopra, a cui si sta aggiungendo, in questi giorni, anche il profumatissimo e furbastro film di Ozpeteck, Saturno contro. Il numero di copie, cioè il numero delle sale in cui questi film sono proiettati, è una cifra da capogiro: 400, 500, 600, 700. Il che, in un piccolo centro, significa non avere scelta. La gente risponde bene a questo cinema, nel senso che spende ed apprezza ed è la stessa gente che non ha risposto ad Amelio e Crialese in autunno, a Bellocchio in primavera e che non risponderà a Costanzo, consolidando il cinema di questi autori alla nicchia, all’essai, a una ristretta fetta di paese a cui piace porsi domande e concepire il cinema come strumento di conoscenza e di approfondimento.
La situazione attuale dice che la cultura, al cinema come dovunque, è un fatto per pochi. Questo è il panorama culturale dell’Italia attuale e se ti chiami Amelio, Bellocchio o Crialese hai i mezzi per combattere, ma se ti chiami Dordit, Reggiani, Moroni, questi mezzi non ce li hai. E chi sono questi nomi? Registi, ragazzi che hanno voluto fare un film. E che per farlo hanno sudato per anni, combattuto colpo su colpo. Sono casi di tenacia artistica e produttiva che, ad opera conclusa, si sono trovati davanti la sordità del paese. I loro film, finiti da tempo, hanno rischiato di rimanere inesistenti: Pietro Reggiani ha impiegato più di cinque anni a realizzare il suo L’estate di Mio Fratello. Da allora qualche festival e basta. Oggi, a distanza di molti anni, in un cineclub romano (il Detour,) il regista spiega il suo progetto di inventarsi una distribuzione così riassumibile: si vendono tagliandi del film a cinque euro. Questi soldi serviranno, dopo una lunga campagna in cui a forza di cinque euro si arriverà ad una cifra di venticinque mila euro, a consentire al film di comprarsi una piccola distribuzione. Chi avrà conservato il tagliandino potrà andare al botteghino ed ottenere un ingresso omaggio.
L’idea di Reggiani non è del tutto originale perché già Valerio Moroni, per il suo film d’esordio (l’unico) Tu devi essere il lupo, aveva ideato un escamotage del genere. Per non parlare di Roberto Dordit, autore di Apnea (finito nel 2003 e uscito a febbraio di quest’anno), che ha fatto un film di genere, di attore e di impegno, fermo per anni nei cassetti della distribuzione. Il genere è il noir, l’attore un ormai divo Claudio Santamaria e l’impegno sta nell’analisi del nord-est italiano in rapporto con la piccola impresa. Il film è stato realizzato quattro anni fa e dopo lunghe, estenuanti battaglie, la visibilità è arrivata soltanto adesso, in pochissime copie e solo in qualche grande città.
Questi sono tre casi ma ce ne sono molti altri. Ognuno ha la sua storia avventurosa e non sempre a lieto fine… E se queste sono storie a lieto fine non c’è molto da ridere. Perché soltanto chi ha motivazioni forti va a vedere questi film. Chi non ce l’ha non sa neanche che questi film esistono. Nessun trailer alla tv, nessun manifesto. Una precisazione, però: nel momento in cui il film &
egrave; in sala, esiste un meccanismo distributivo spontaneo e molto democratico. È il passaparola tra il pubblico. Quando un’opera visibile è degna, il pubblico, di nicchia che sia, se ne accorge, lo comunica ed il film andrà verso una sua soddisfazione. Con Moroni non è andata male, con Dordit è forse presto per dirlo, a Pietro Reggiani si augura tutta la fortuna del mondo.
Certo – va detto – se questi film hanno avuto così tanti problemi ad ottenere una distribuzione è anche perché non sono dei capolavori. L’Estate di mio Fratello è un film personale e semplice, associabile ad aggettivi come delicato, simpatico, tenero. Nulla più di questo. Tu devi essere il lupo è una storia estranea ad ogni riferimento esterno ad essa, sociale, politico o culturale che sia. Apnea non è del tutto risolto in termini di sceneggiatura e l’analisi del contesto paesaggistico nordestino non è espresso con grandissima profondità. Ma è importante che questi tre film siano visti, per una serie di motivi: primo, non sono peggio di tanti altri che si sbracano da Sud a Nord a mo’ di occupazione; secondo, ogni film prodotto in un paese dev’essere mostrato perché quel film è un pezzo di storia di quel paese, cinematografica soprattutto, ma non solo. Terzo: questi tre film, come altri invisibili, adottano un linguaggio personale e non omologato a quello straparlato della Fiction. Per questo, forse, al mercato non interessano e quasi lo impauriscono.