Approssimandosi alla cima di una montagna, o comunque nelle vicinanze della più compiuta espressione in altitudine della stessa, si può avere la percezione di toccare l’apice di un sentimento rigenerante, di un’emozione raggiunta attraverso il compimento di un’autentica attività esperenziale che, seppur per un tempo limitato e quindi effimeramente, rende alieni o indipendenti rispetto a quell’alveare nevrotico distante migliaia di metri in basso, e del quale si è cittadini per il resto del tempo. Gioia, decontaminazione e appagamento si suggellano nella fatica di un’ascesa che suggerisce progressivamente immagini e sensazioni correlate dalla vista, l’odore e l’udito di un cielo bucato senza preavviso dalla roccia terrestre. Terminata la salita e intrapresa l’inevitabile discesa, ecco che si esaurisce la possibilità di godere dell’eredità di quel caleidoscopio di visioni e sentimenti suggestionati in precedenza dall’erta compiuta, e controvoglia si ritorna letteralmente con i piedi per terra. Come se in qualche modo massima altezza potesse corrispondere a massimo sentimento, e dunque che da ogni momento successivo alla conquista della cima, tutto vada inevitabilmente e tristemente a depressurizzarsi.
“Dalla vetta non si va in nessun posto, si può solo scendere”,lo ha scritto, in “Nel legno e nella pietra“, Mauro Corona, un esperto, un abitante e un amante della montagna. L’altitudine, per altri versi, pare azzerare le differenze di condizioni e le sovrastrutture sociali che di fatto le impongono, sembra in un certo qual modo tendere a parificare ciascun essere umano rispetto all’altro e a far sì che sul suo campo neutro nessuna condizione venga privilegiata o sfavorita a vantaggio o nei confronti di altre. Alcune ore di salita in montagna fanno di un briccone e di un santo due creature quasi uguali” era addirittura Friedrich Nietzsche a sostenerlo, aggiungendo inoltre che “la stanchezza è la via più breve verso l’uguaglianza e la fratellanza“. Anche Ruben Ostlund sceglie di ambientare “Force Majeure”, e le sue vicende famigliari di non remota ispirazione bergmaniana, sullo sfondo di maestose montagne innevate dalla cui rappresentazione, tuttavia, scaturisce un profilo fisiognomico delle vette più celato e sinistro rispetto all’idea di accoglienza e pace cui si faceva sopra riferimento. Una famiglia svedese (padre, madre, due figli) trascorre una settimana bianca in un residence mozzafiato su un declivio a poche centinaia di metri dalle imponenti cime delle Alpi francesi.
La famiglia è rappresentata come di chiara estrazione alto-borghese: oltre all’esclusivo resort ultrastellato in cui possono permettersi di dimorare, lo testimoniano il design perfetto delle loro tute invernali, i quattro paia di sci di ultimo modello indossati, o ancora le cene in baite alpine molto piu simili al Mirabelle di Roma o al Bulgari di Milano che a rustici rifugi di montagna. Ma non è certo il solo inventario delle loro proprietà a costringerci (e ci venga perdonato, se possibile, il nostro intercedere presso il più bieco dei classismi) a definirli altolocati, bensì è la modalità del tempo trascorso insieme che fanno di questa una famiglia ultraborghese. La maggior parte delle sequenze dedicate contemporaneamente ai quattro famigliari, prima del trauma scatenato dalla valanga, è scandita da un silenzio a tratti imbarazzante e da un percezione visiva e non di separazione fisica: padre, madre e figli sono spesso raffigurati ciascuno nell’alveo di un proprio spazio autonomo, distintamente separati l’uno dall’altro; quando sciano, quando camminano, perfino quando dormono tutti e quattro insieme nel letto matrimoniale, essi appaiono inevitabilmente e irrisolvibilmente relegati ad un sistema di relazioni non vive, automatizzate e metaforicamente congelate dal freddo d’alta montagna. L’imperio del silenzio, poi, certo non è dettato dalla scelta individuale di un momento di riflessione oppure, volendo immaginare oltre, dalla tacita condivisione di un’emozione provata, ad esempio, dopo una gradevole sciata mattutina, bensì dalla condizione non compiutamente consapevole di una reciproca, incolmabile incomunicabilità. Non si ha memoria di un moto affettuoso dei genitori verso i figli, nè di un indizio di spontaneità e leggerezza tra coniugi, visto che a scapito della libera azione è il pensiero del dover fare e del dover apparire a meccanicizzare ogni istante ed ogni gesto. A questo proposito, in una sequenza successiva a quella della valanga, di fronte alle inquietudini e alle rimostranze della moglie sconvolta per quanto accaduto, l’uomo ha come unica reazione il penoso tentativo di rivendicare il fragile sistema su cui aveva fino ad allora poggiato il loro equilibrio famigliare: “Noi siamo qui in vacanza” le dice, “non possiamo discutere“. Perfino i figli, ancora nel pieno dell’infanzia, che secondo l’immaginazione comune ci si aspetterebbe di veder giocare senza regole, ridere di gusto e rotolarsi con entusiasmo nella neve, nella famiglia di Ostlund hanno invece, con le loro tute perfette addosso e gli sci costosi ai piedi, le sembianze di microautomi mai sorridenti. Di adulti lenti nel corpo di bambini. Ecco allora che il silenzio contemplativo della montagna, la tregua sospensiva dagli affanni che da essa ci si attende, la solitudine alpina che nelle condizioni ortodosse diventa un’occasione irrinunciabile per riuscire finalmente a sentirsi pieni di sè, in “Force Majeure” diventano echi insostenibili di una condizione umana disperata, di uno scorrere fluido della vita che è solo di facciata, di una tranquillità che si tramuta in quella che nella “Domenica delle Salme” Fabrizio De Andrè chiamava pace terrificante.
Il silenzio ovattato e irrisolto delle cime è qui rotto e inframmezzato ad intervalli regolari dai soli spari dei cannoni di neve artificiale, oltre che dal rumore degli spazzolini elettrici da denti, che i due coniugi utilizzano la sera in bagno, l’uno al fianco dell’altra contemplando la propria immagine allo specchio, senza parlarsi e guardarsi mai. Un giorno arriva la valanga. La famiglia è seduta a tavola su una splendida terrazza di un ristorante, la cui vista getta direttamente sulla parete bianca di una montagna. Lo sparo di un cannone innesca il ruminare discendente di uno strato di neve che dalle pendici precipita proprio in direzione del ristorante. Metro dopo metro l’onda bianca si allarga e s’ingrossa fino ad assumere le sembianze di un maroso spaventoso che punta dritto verso la terrazza. I clienti si alzano dai loro tavoli e fuggono verso l’interno del locale con il solo scopo di salvare se stessi. Tra di loro c’è anche il “capofamiglia” che, preoccupato di sè, scappa precipitosamente dimenticando o ignorando di occuparsi della salvezza dei figli, alla cui cura la sola delegata resta necessariamente la moglie. La polvere di neve sollevata dalla valanga ricopre con un lenzuolo bianco l’intera scena, ed oltre alla vista impedita dallo stesso, per qualche istante la sola percezione sensoriale dello spettatore è il mormorio soffuso e disorientato di voci perse o spaventate. A poco a poco il lenzuolo si alza, progressivamente i tavoli, la terrazza, il pendio della montagna tornano a farsi nitidi; le persone, a gruppi via via meno sparuti, tornano pur con circospezione ai loro tavoli, tranquilizzandosi per il fatto di essere tutte sopravvissute. Anche il padre fa ritorno al suo posto, ma già da quel momento la vita, le sue regole solide e frugali al contempo, di ciò che era prima ha conservato appena la sua immagine esteriore. Da quello e nei giorni successivi, la valanga da naturale diventa domestica. La fuga dell’uomo si trasforma nell’oblio inesorabile di se stesso, del ruolo fittizio a lui assegnato da un corollario prolungato di convenzioni e status idealizzati.
La donna, abbandonata nel ruolo di madre, si ritrova ad appurare il crollo di un Impero, sulla cui evanescenza aveva già avuto, rispetto al marito, una consapevole precognizione; ciò che le rimane è il pretesto della vendetta rabbiosa nei confronti del coniuge, sintetizzata nelle accuse di viltà e responsabilità rivoltegli non soltanto tra le pareti riservate di una camera d’albergo ma anche alla luce del sole e in presenza di terze persone; pranzi e cene tra amici, pertanto, diventano improvvise e dolorose terapie di gruppo, in cui subdolamente il tema centrale dell’inadeguatezza da intimo diventa universale, da privato diviene sociale. I figli, infine, spugne indifese delle reazioni genitoriali, si scoprono attori non protagonisti di una farsa fino quel momento dignitosamente recitata, e svelata adesso da un autentico psicodramma alpino. La montagna così attua la sua trasformazione da benigna in maligna. Il grido dell’uomo che da cima scende a valle diventa un’eco d’impotenza, il cigolare di una cabinovia un indizio di soggezione, la pista silenziosa e solitaria un percorso di smarrimento fino alla visione di un inferno di trasfigurati volti giovanili e delle loro urla stonate in una discoteca senza nè tempo nè spazio.
Ad anticlimax esistenziale compiuto, Ostlund sceglie un finale compensatorio, in cui sottolineare l’idea che le paure, comprese quelle dettate dalla tirannia dell’istinto di sopravvivenza, siano universalmente comuni alla razza umana, e assunte come tali siano in grado di ridimensionare il peso della responsabilità individuale. All’uomo singolo, tuttavia, resta il solo vagheggiamento di ciò che non è stato e di ciò che mai sarà. Rimane, vivido ma fasullo, soltanto il sogno illusorio di una tempesta di nebbia in cui ergersi finalmente a salvatore di moglie e figli, e dal quale ottenere la propria ressurrezione. Ma di fantasia, e di null’altro, si tratta.
Bellissimo pezzo!
Una riflessione acuta profonda e dolorosa ma allo stesso tempo vera e umana.
e scritta anche benissimo! spero di vedere presto il film per possibili confronti
molto bello il commento!molto lento e spento il film, purtroppo:( La scrittura nobilita davvero il reale, persino quello ultraborghese