[**] – Shame è un film che si autoconclude nella sua non conclusione, un destino atroce al quale ci si arrende piangendo disperatamente inginocchiati al centro di una strada di una metropoli blu. Ma di quel blu da sala operatoria.
Naturalmente la trama preventiva di Shame, quella a cui ci hanno esposto i pubblicizzatori del film, non né realistica, né fedele. Il tema sembrava piccante, ma è un tema apparente: il film parla di un danno; e ne parla, neanche troppo. Scene di sesso invece, poco e male. Il tema vero si attorciglia attorno a questo danno e, attorcigliandosi, si raddoppia anche. Da danno singolo, diventa danno condiviso. E questo è il punto debole del film.
Shame è stilisticamente molto coerente. A un’ambientazione rarefatta, asettica, corrisponde una lentezza. New York (livida) va allo stesso ritmo di come lui vuole che le donne si spoglino: lentamente. La colonna sonora sembra quella d’accompagnamento di un rituale (e il rito si rivelerà poi fondamentale ai fini del film). Ma la memoria cinematografica ci ricorda che la musica classica nasconde terribili inquietudini.
In Shame non si tratta di un’essenzialità dell’arredamento, urbano, casalingo e personale, né di una pulizia. È, piuttosto, l’eco del nulla. Del resto, l’incipit non allude a niente di più, né di meglio. Ripresa dall’alto: un uomo è disteso seminudo su un letto matrimoniale, al centro, da solo. Si alza. Sullo stesso letto lasciato abbandonato, disfatto, compare la scritta: S H A M E.
La luce di questa prima scena è senza pietà. È il grigiore soffocante di una mattina senza sole, ma dentro un appartamento privo di luci artificiali; luce che altrettanto spietatamente si attanaglia al suo ruolo centrale, senza lasciarlo mai. È la luce in cui in un secondo si percepisce tutta la miseria di una condizione. È la luce ghiacciata, teatro dell’unica pseudo orgetta, e la stessa luce nella quale si consuma l’impossibilità di cambiare, da parte del protagonista, quando il film tenta la falsa pista, quella della svolta. La reticenza, la negligenza, la tossicomania, la ripetizione hanno la meglio. Il protagonista non esce – e in questo c’è una grande onestà da parte del film – dai giri a vuoto su se stesso, presso i quali è operaio specializzato. La reiterazione claustrofobica è anticipata dalla prima corsa in metropolitana, che dà l’avvio al film. Il treno grigio-bluastro passa per la stazione di Fulton Street; non si ferma, procede. La fermata successiva è quella giusta; il protagonista scende per seguire una donna che però si disperde tra la folla, per lasciare posto all’indicazione del luogo: la stazione metropolitana sembra essere, di nuovo, quella di Fulton Street. Andare avanti per tornare indietro. Da questo punto di vista, si può dire che il film centri subito il topic. Tant’è vero che è solo dopo questa lunga (e funzionale) introduzione che il protagonista viene finalmente contestualizzato, e cioè presentato nel suo ambiente di lavoro.
Il regista, Steve McQueen, è un videoartista. Una delle scene migliori del film è la lunga (delicata e molto bella) interpretazione di “New York, New York”, che introduce “pubblicamente” la sorella del protagonista, personaggio che, poco dopo, rappresenterà l’appesantimento della vicenda. Lo spettacolo dura tutta la canzone (tempo di esecuzione e tempo del film coincidono), lei ha gli occhi lucidi e sofferenti. L’inquadratura è tagliata sul primo piano di lei ed è solo una volta intervallata da un pianto di lui, che sembra commozione e invece è comprensione di un destino comune, espressione di una profonda pena. Fotograficamente affascinanti anche le conversazioni tra i due, entrambi di spalle. Per un attimo l’uscita della cinepresa fuori dal locale in cui lui e una donna stanno cenando, fa pensare all’ambizione delle riprese di My Blueberry Nights, e qua e là l’uso del sonoro anche.
I due fratelli sono due facce della stessa medaglia. Interpretano il dolore che li accomuna in due modi estremamente opposti. Lei per eccesso, lui per difetto, entrambi per ricorsività della non uscita. E tutto ciò è leggibile troppo esplicitamente in didascalici poli uguali e contrari.
Ed è proprio per questo che il film mettendo troppo, aggiungendo, sottrae efficacia a se stesso. La doppia storia del disagio finisce per straripamento. Di clichés drammaturgici.
bel testo, grazie Martina
Concordo. Peccato sia mancato l’equilibrio in sceneggiatura perché i volti dei due e certe scelte di luce e di inquadratura mi hanno emozionato.