“Il suo nome comincia con una carezza e finisce con un colpo di frusta”. Con queste parole Jean Cocteau dava una definizione di Marlene Dietrich, a partire dal nome d’arte (in realtà si chiamava Marie Magdalene Dietrich), come di una creatura divina in grado di accoglierti nel suo olimpo con la morbidezza della seduzione per poi svelare il lato crudele e aggressivo che a volte si cela dietro il culto di un’immagine, il nocciolo duro dentro l’involucro levigato di paillettes e piume.
Prendendo in prestito le parole del grande scrittore francese sulla diva tedesca e il suo mito, ma rovesciandone l’ordine, potremmo dire che la visione di questo cine-biopic su J. Edgar Hoover firmato Clint Eastwood comincia con un colpo di frusta e finisce con una carezza, visto che l’apertura è centrata su questo corpulento uomo ultrasettantenne che sta rievocando con piglio deciso la sua vita indissolubilmente legata alla storia dell’FBI, il più importante, potente e discusso servizio investigativo statunitense, di cui Hoover fu il direttore per quasi cinqunt’anni, attraverso otto presidenti e tutti i profondi cambiamenti politici e sociali avvenuti in Nord America e, di riflesso, nel mondo durante buona parte del ventesimo secolo. Detta così ci si aspetterebbe di trovarsi di fronte ad un personaggio di epica grandezza, uno di quegli uomini che hanno fatto la Storia e che, in nome di essa o, più nello specifico, per la sopravvivenza del proprio Paese e la tutela dei suoi valori costituenti hanno sacrificato la loro umanità, scarnificando e mortificando il privato sull’altare dell’interesse della “cosa” pubblica.
Il film di Eastwood è, invece, tutto concepito nel segno della carne, o meglio delle pulsioni carnali represse, e in quello della morte, o più specificamente della precarietà che gli Stati Uniti, paese la cui pur “giovane” storia è fondata in parte su contraddizioni e mistificazioni, hanno sempre avvertito come una minaccia da allontanare e reprimere spesso con il controllo ed il ricatto. Entrato nella fase della consapevolezza crepuscolare, Clint, che ha intrapreso questa strada a partire da Gli Spietati (la definitiva smitizzazione dell’epopea western per cui era già stato polverosa e imbastardita icona attoriale nel cinema di Sergio Leone), prosegue con un’analisi che sa essere ora lucida, ora romantica della storia americana e quello che sembra interessarlo sempre di più è proprio la natura umana dei comportamenti, lo svelamento del “corpo” nudo sotto le sovrastrutture che costringono il camuffamento e la dissimulazione del desiderio, ridotto a sublimazione, alla proiezione dello spazio che divide l’ardente mondo interiore dalla realtà arida e indifferente. Un luogo che si trova, citando il memorabile finale di Million Dollar Baby, tra “il nulla e l’addio”. La vita privata di J.Edgar Hoover anzi di J.Edgar, come eloquentemente recita il titolo, lasciando fuori il nome pubblico per occuparsi di quello che c’è dietro al Prenom (come in fondo fece, tramite altri codici estetici e narrativi, Godard con la Carmen di Bizet), acquista una forma e una sostanza attraverso le immagini spente nelle luci e appesantite nella loro grigia materialità, un mezzo efficace con cui Eastwood mette sull’orizzonte della stessa linea estetica la parte segreta, tormentata, la camera oscura dentro cui Hoover si confrontava con i propri fantasmi e il ruolo di ufficiale pubblico, la cui determinazione a mantenere il controllo e il potere era alimentata dalla stessa vibrante inquietudine di voler essere amato e accolto senza condizioni. Una ricerca dell’amore “assoluto” interrotta fin dall’infanzia dalle soffocanti attenzioni di una madre castratrice che insegna a J.Edgar come il riconoscimento e l’amore si ottengono rispondendo all’aspettativa degli altri (“Ho sognato che diventerai la persona più importante degli Stati Uniti”), e che per mantenere questa promessa e dunque preservare quell’amore tutto è lecito e consentito, incluso il ricatto con cui Hoover, grazie all’uso e abuso delle intercettazioni, tenne sotto il suo giogo otto inquilini della Casa Bianca.
Ma il prezzo più crudele ed alto da pagare, almeno da quello che esplicita la sceneggiatura di Dustin Lance Black e che Eastwood segue con convinzione e intensità, è quello della negazione di un’omosessualità vissuta da una parte come un fardello di vergogna, lacerante contraddizione di un’altra aspettativa (“Sono contenta che mio figlio non sia malato di quella “cosa”) e dall’altra vissuta come un toccante, sotteraneo (forse toccante perche sotteraneo) brivido che non esclude esplosioni di passione o gesti di quotidiana tenerezza. E nella relazione con Clyde Tolson, che per Hoover fu vice-direttore del FBI, braccio destro, assistente e amante, Eastwood arriva allo smacheramento di questo personaggio in due scene che ne riassumono la complessa verità come raramente mi è capitato di vedere nei biopic di produzione americana ed inglese, tutti inevitabilmente sedotti dalla mitologia del personaggio che vogliono raccontare e di conseguenza portati alla semplificazione. Nel primo momento, J.Edgar e Clyde sono ancora giovani, belli, all’apice del successo, tra l’arresto di John Dillinger e la risoluzione del rapimento e dell’omicidio del figlio di Charles Lindberg, e davanti a Hoover che esprime la necessità di trovare una moglie per completare l’immagine di eroe americano, Tolson, fino a quel momento apparso come nulla più che un ripulito e ossequioso lacchè, esplode in una scenata di rabbiosa gelosia che termina con una scazzottata e un bacio tra i più sensuali e appassionati recentemente visti nelle storie d’amore cinematografiche, etero o omo che siano. L’altro momento, preludio allo struggente finale, vede invece gli stessi J.Edgar e Clyde ormai vecchi, in una società profondamente cambiata che probabilmente non capiscono più o, almeno, che Hoover, divenuto ormai un paranoico dell’esercizio del controllo, legge con ancora più rigidità e assenza di scrupoli (le lettere minatorie inviate a Martin Luther King), consapevole di esserne ormai quasi tagliato fuori, con l’ultima illusione nella realizzazione di un’autobiografica che lo celebra mistificando e omettendo. Sarà proprio Tholson, in una confronto “casalingo”, fuori dall’ufficiofortezza di Hoover dove ogni bugia e iganno sono consentiti, a svelare le mistificazioni e le omissioni di una storia (non fu lui ad arrestare Dillinger, e ci fu più di un dubbio sulla colpevolezza del rapitore e dell’assassino del piccolo Lindberg) e a chiarire la reale natura del rapporto. Così J.Edgar, in una scena tra le più romantiche e commoventi recentemente viste nelle storie d’amore cinematografiche (etero o omo che siano) bacia il suo Clyde sulla fronte, un momento in cui tutto il sommerso e il “velato”, citando Lo schermo velato, il libro di Vito Russo sull’omosessualità nel cinema hollywoodiano, emerge nel senso profondo di una relazione, la tensione che si scioglie e ci svela come quel mondo e le immagini che lo hanno raccontato avrebbero potuto essere un’esplosione di infuocato colore se alimentate dall’amore invece che soffocate nella cupezza del peso del potere. “Dal primo momento che ti ho visto ho capito che avre
i avuto bisogno di te”, dice inoltre J.Edgar a Clyde portando alla superficie la tensione che viaggiava al di sotto dell’apparenza di un colloquio di lavoro, in cui la scelta di quel candidato era motivata da una necessità più forte di qualunque titolo sul curriculum e una mano sudata aveva tradito un’emozione più profonda dell’affanno per un esercizio ginnico.
Eppure non credo renda giustizia a questo splendido ottantenne, capace di coniugare lucidità e passione, riflessione ed emozione ammantando la lezione del cinema classico con il velo delle disillusioni e delle fratture degli anni ‘70, riconoscergli soltanto l’aver avuto il coraggio di esplorare un territorio teoricamente a lui così distante come l’amore anche senile di una coppia omosessuale.
Quel bacio di J.Edgar sulla fronte di Clyde è fortemente legato ad un aspetto del suo cinema: il saper raccontare, con autentica, reale compassione, l’affettività che corre come un’energia tra i suoi personaggi, tra gli esseri umani. Il rapporto tra lo scapestrato, alcolizzato, tubercolotico cantante country e il ben più saggio e assennato nipote di Honkytonk Man, il legame doloroso ma indissolubile che unisce il tormentato Charlie Parker alla moglie in Bird, il congedo doloroso ma necessario che Frankie Dunn dona alla sua “pupilla” Maggie in Million Dollar Baby, lo stesso Clint che dona se stesso, il suo corpo attoriale, il suo status di icona cinematografica per lasciare un’eredità di non violenza, tolleranza e integrazione in Gran Torino.
E anche qui arriviamo al capolinea, dove una volta risolta la parte ufficiale (morto Hoover, la fedele segretaria distruggerà tutti i dossier delle intercettazioni dei politici spiati e ricattati) c’è lo spazio per un altro congedo che spiazza nella sua quieta commozione: Clyde che trova nella camera da letto dove J.Edgar se n’è appena andato un’appassionata poesia d’amore che lo spinge al pianto. Poca importa che si trattasse di una lettera trovata da Hoover per dimostrare le presunte tendenze omosessuali della First Lady Eleanor Roosvelt. Con un colpo d’ala Eastwood trasforma la testimonianza di un ricatto nella conclusione di una storia d’amore e in un finale che diventa la sua carezza, la sua “Marlene”.
Davvero un bellissimo pezzo, condivido appieno.
Aggiungo: la “doppiezza” emotiva di J. Edgar ha per me anche un senso “politico”: la negazione di un’evidenza privata (la propria omosessualità) diventa il presupposto a partire dal quale costruire una narrazione pubblica, quella di un intero Paese, basata totalmente su negazioni di verità (la minaccia comunista, ecc.).
Sottraggo: alcuni paludamenti e appesantimenti propri del biopic, soprattutto nella prima parte, il film secondo me non riesce ad evitarli del tutto. Ma onore a Eastwood, che ha fatto il più imprevedibile film d’amore che ricordi.