Una coppia di flics corrotti intercetta una grossa partita di coca destinata a uno smercio tra bande di spacciatori in combutta e se ne impossessa. Come conseguenza i trafficanti sequestrano il figlio a uno dei due. Il padre, Vincent, dovrà restituire in fretta la merce se lo vorrà rivedere vivo.
Polar teso e adrenalinico, giocato con atletismo e scioltezza da Frédéric Jardin, ex assistente di Godard, qui alla prima prova nel genere noir-poliziesco. Nella marcata unità spazio-temporale di una sola notte, all’interno di una discoteca multipiano, tra bande di pusher che si fronteggiano, poliziotti buoni e poliziotti cattivi che se la danno di santa ragione, e il pulsare “a cassa dritta” della techno che scandisce metronomicamente l’azione, Nuit Blanche dimostra una padronanza stupefacente del mezzo tecnico e una scrittura cinematografica capaci di rendere il senso di apnea e concitazione turbinante verso la catastrofe, senza mai far perdere di vista le traiettorie fisiche e psicologiche che determinano la causalità degli sviluppi narrativi.
Un’azione ciclonica, intesa sia nel senso “meteorologico” di una catena di eventi distruttivi, sia per denotare un doppio movimento: il vortice implacabile in cui si avvitano i piani esistenziali dei protagonisti e la spinta centrifuga che allude a un “di fuori”, l’aspirazione a un orizzonte catartico (consolatorio?) di cui possiamo solo sospettare l’esistenza.
Nell’inarrestabile, frenetico giro della morte che travolge la vita di Vincent nell’arco della nottata, nessuno resterà immune, tutti all’apparenza immischiati, compartecipi in una spirale di calcolo e dissimulazione (con la sola, non trascurabile eccezione dei personaggi femminili). E nell’abile tessitura narrativa di cui il film si giova, neppure il gesto più insignificante rimane isolato e privo di conseguenze. Le azioni creano ripercussioni inaspettate a catena e il tentativo di avere la meglio o anche soltanto di controllare l’ambiente circostante si dimostra illusorio.
La fotografia di Tom Stern (già collaboratore di Eastwood), giocando sporco con contrasti taglienti e densità di grana – tra neri intrauterini e sovraesposti abbagli al neon – e investendo della stessa implacabile radiazione luminosa corpi, oggetti e ambienti, restituisce l’insostenibilità esistenziale di una claustrofobica discesa agli inferi e l’ambiguità paranoica delle azioni dei protagonisti.
Vincent sceglie di darsi in pasto al mostro, si getta nelle viscere stesse del male – la discoteca è un organismo vivo, palpitante e marcio – procedendo a balzi tra sale gremite, corridoi, cucine e condotti di servizio. La macchina da presa partecipa e sostiene in pieno la prova atletica del protagonista (l’attore Tomer Sisley in forma smagliante), trascinandosi dietro uno spettatore frastornato e in affanno. La magia sciamanica del miglior cinema d’azione si compie dal momento in cui gli spettatori cadono vittime del medesimo stato di trance frenetica che muove il protagonista. Quando le condizioni scaturite dagli sviluppi narrativi mettono a dura prova l’impalcatura di verosimiglianza sui cui la sceneggiatura si regge – si pensi ai frequentatori della discoteca che rimangono imperturbabili all’interno delle sale nonostante inseguimenti, pestaggi e sparatorie – la regia di Jardin infila trappole e detournamenti, produce improvvisi rovesciamenti del punto di vista o semplicemente pigia ancora più sull’acceleratore, preservando in buona sostanza l'incantesimo.
Nella migliore tradizione del noir francese, l’azione al cardiopalma non galleggia però in un orizzonte indistinto, ma rimanda esplicitamente alla realtà sociale e politica. Vincent va dritto al punto nonostante tutto e tutti sembrano sbarrargli il passo: il suo è un viaggio iniziatico e quindi, in fondo, dentro se stesso, verso il recupero di un’affettività parentale negata dalle pressioni sociali. Vincent, di origine maghrebina, è separato dalla moglie e in cattivi rapporti col figlio adolescente. C’è solo dato di intuire, dietro il suo fallimento relazionale, la cieca dedizione a un mestiere rischioso, vissuto soprattutto come occasione di riscatto sociale in un contesto in cui l’appartenenza etnica e di classe non è mai irrilevante.
Nuit Blanche è quasi un’incarnazione cinematografica del concetto temporale bergsoniano. Per Bergson il tempo della vita ha come simbolo la valanga e coincide con il fluire autocreativo della coscienza. Lestezza che va di pari passo con la leggerezza pensosa e l’evocazione icastica, per dirla con Calvino, un cinema che fa della molecolare mobilità del pensiero e dei corpi la scintilla delle dinamiche drammaturgiche. Fin dalle sue origini, certo cinema francese si è alimentato di un’intrinseca facoltà ipercinetica, anarcoide che accomuna Truffaut con i film di Fantomas, Jean Vigo con Michel Gondry, Jeunet col poliziesco hard boiled di Jean-Pierre Melville. Ecco perché, volendo rinvenire influenze e riferimenti stilistici e narrativi per Nuit Blanche, non ci sembra utile scomodare esempi di mezzo mondo, dal cinema gangsteristico di Hong Kong ai noir a basso costo americani di Ulmer o Fleischer.
Così, il film di Frédéric Jardin, sia pur nella consapevolezza autoriale dei corto circuiti creativi che il cinema contemporaneo mondiale inevitabilmente stabilisce (il co-sceneggiatore, Nicolas Saada, è stato critico dei Cahiers), ci sembra meritevole di un posto d’onore nella grande famiglia del cinema noir francese, accanto alle opere recenti di Olivier Marchal e Jacques Audiard (autore quest’ultimo de Il profeta, con cui Nuit Blanche interseca diversi piani narrativi). In campo letterario viene in mente il geniale Jean-Patrick Manchette, artefice della rinascita del genere negli anni ’70, autore di romanzi dalle stupefacenti qualità cinematiche. Come in Manchette, anche in Nuit Blanche tutto è pura azione, non si ricorre a scorciatoie introspettive o a espedienti di distanziamento. Tuttavia è la nuda condizione umana in un orizzonte sociale di appartenenza di classe, a risaltare dalla dinamica di violenza cruda degli avvenimenti.