Perchè sì

Perchè no

 di Valerio Sammarco

Ospitiamo la recensione di Valerio Sammarco pubblicata sulla rivista cinematografo
Avevamo lasciato la reporter televisiva (Manuela Velasco) nelle grinfie della niña Medeiros, nel buio dell’attico del palazzo contaminato. Ora, dall’esterno, una task force composta da quattro militari e un sedicente dottore del Ministero della Sanità (…) viene mandata all’interno dello stabile per “capire cosa sia successo”, “scovare eventuali sopravvissuti”, “documentare con le riprese tutta l’operazione”. A distanza di due anni, Jaume Balagueró e Paco Plaza realizzano il miglior sequel possibile per il loro Rec: la ricerca sul linguaggio vince ancora una volta sul racconto (la sceneggiatura, come il precedente, è pressoché un pretesto e le incongruenze non mancano), è vero, ma per l’occasione i due registi spagnoli si ri-appropriano del mezzo digitale per lanciare un’ulteriore sfida e invitare lo sguardo dello spettatore ad un altro gioco. A guidarlo, ovviamente, è ancora Pablo Rosso (era Pablo nel primo Rec, ora è Rosso…), direttore della fotografia e operatore diegetico che, macchina a mano, è chiamato a documentare l’orrore: la novità, oltre alle microcamere in dotazione per ogni militare (ulteriore “stimolo” alla spersonalizzazione della soggettiva) e al richiamo ancora più smaccato alle teorie sperimentali del “montaggio in macchina”, è data soprattutto dall’improvviso cambio del punto di vista (dopo che la videocamera della task force si rovina durante una colluttazione con un riposseduto, “rientriamo” nello stabile al seguito di tre ragazzini troppo curiosi, ovviamente “armati” per riprendere ogni cosa…). La storia ricomincia, lo sguardo si “reimpossessa” dell’orrore, l’orrore finirà per sparargli dritto in faccia. Game over.

 di Sergio Ponzio

 Il raffronto in ambito horror tra uno scialbo sequel e il suo seminale predecessore (qui recensito), specialmente ove la firma alla regia sia la medesima, provoca talvolta in chi vi scrive una reazione di sgomento, quasi come di fronte al tradimento di un’amicizia. Ci si chiede come sia stato possibile dilapidare così malamente una vasta riserva di credito conquistata tra gli appassionati, un patrimonio mitografico impiantato nella memoria collettiva, degli spunti narrativi brillantemente congegnati, un’idea di horror classica e innovativa allo stesso tempo, in grado di stabilire lo stato dell’arte del genere. REC 2 esce con le ossa rotte dall’accostamento con il primo episodio: indugiare sul ciglio dell’abisso che li separa sarà utile ad abbozzare due o tre cose sull’horror contemporaneo. 
Giusto il tempo per sostituire la batteria esaurita del camcorder, inserire un nuovo nastro, ed ecco il secondo REC ripartire dal punto esatto in cui il primo si era bruscamente interrotto. Dall’originale al sequel la presa diretta non ha soluzioni di continuità. La giovane, intraprendente e molto tosta Angela Vidal, conduttrice del programma in diretta Mentre tu dormi, dopo una notte piuttosto agitata trascorsa nel condominio di Barcellona infestato da zombi idrofobi, e rimasta probabilmente l’unica superstite dell’intero edificio, nell’ultima inquadratura veniva risucchiata con violenza in un’oscurità assoluta, oltre il campo di visione notturna agli infrarossi del solo testimone elettronico. Switch off. Switch on. La lunga soggettiva ininterrotta dell’ingombrante telecamera broadcast nel primo film, cede qui il passo al punto di vista di più sofisticate micro-camere, installate nei caschi in uso alle forze speciali di polizia. Una squadra equipaggiata di tutto punto, guidata da un sedicente funzionario del ministro della sanità, penetra nell’edificio in quarantena, circondato da elicotteri e cecchini. Scopo della missione parrebbe quello di contenere il diffondersi dell’epidemia e portare in salvo eventuali sopravvissuti. Come nella migliore tradizione del genere, nulla è però come appare, e il razionalismo scientista è costretto ben presto a soccombere, inghiottito in una dimensione soprannaturale, fatta di demoniache presenze, esorcismi e oscure trame vaticane che neanche il Marcinkus dei tempi migliori avrebbe potuto ordire.
 Se è vero però che i colpi di scena si susseguono con un certo ritmo, il dialogo pleonastico e sovrabbondante anticipa e commenta azioni e snodi narrativi. A volte basta un’esclamazione fuori posto a depotenziare il pathos di una scena. Quasi a voler parodiare un brutto thriller Usa, si sprecano i “Maledizione!” e i “Cristo!” (Perché mai poi, in fase di adattamento dialoghi, ci si ostina a ricorrere a questo inglesismo pressoché assente nell’italiano parlato? Ma su tutto il doppiaggio stendiamo un pietoso velo, per la mancanza assoluta di profondità sonora che schiaccia sullo stesso piano voci a distanze molto diverse, rendendo surreali e incomprensibili intere scene).
Tutto ciò che in REC non trovava spiegazioni certe e univoche – mistero impalpabile non svelato e perciò assai più terrorizzante sull’origine del Male, follia bio-hazard, invasione di zombi o possessione diabolica? – perde nel secondo film il suo alone d’indistinguibilità, diventando una riproposizione convenzionale del più stantio cliché esorcistico cinematografico.
Ci si potrebbe passare sopra, se il film non mancasse il bersaglio principale per ogni horror che si rispetti: far sobbalzare il pubblico, costringerlo a quella liberatoria contrazione muscolare con salutare scarico di adrenalina a ogni incursione delle creature mostruose.
Non esistono golden rules ma certamente il fattore sorpresa gioca un ruolo ambivalente nel difficile corpo a corpo con lo spettatore che, se preso troppo alla sprovvista, potrebbe non accorgersi neanche del colpo infertogli. L’imminenza della minaccia in agguato va predisposta con un accorto dosaggio di suggestioni visive e sonore, luce e oscurità, esplorazioni di spazi angusti, dilatazioni temporali e accelerazioni improvvise, dissemina di brutti presagi e falsi indizi. Il primo REC, come altri capolavori neo-horror europei (The Descent e Ils in testa), aveva saputo trarre il massimo dell’effetto mantenendosi in equilibrio sul crinale tra inesorabilità e imprevedibilità, aggiornandosi persino in un contesto postmoderno di indeterminatezza sull’origine del pericolo.
 In REC 2, ahinoi, il meccanismo s’inceppa: il motore di affioramento della paura c’è e funziona, lo spettatore smaliziato sta al gioco e attende, già elettrizzato, la mazzata, quando la vittima prescelta abbassa la guardia, dà le spalle al buio o sembra convinta dello scampato pericolo. Ma ecco che il climax è superato e non succede un bel niente, il nostro protagonista prosegue le sue perlustrazioni e lo spettatore comincia a stancarsi del gioco, facendo saltare quel vecchio, tacito patto di sospensione dell’incredulità che pur sempre sovrintende i codici dell’ultra fiction. Quando l’aggressione infine si compie, è assai meno micidiale del previsto, i mostri paiono stanchi anche loro di giocare al gatto col topo e attaccano più come se glielo imponesse un contratto che per autentica sete di sangue umano.
Se sul piano narrativo REC 2 sperpera l’originale lascito di suggestioni del primo film, a livello stilistico le cose non vanno certo meglio, anzi.  Rispetto alla linearità del primo REC, in cui il piano sequenza non stop dell’unico cameraman abilitato, garantiva le unità di tempo e di luogo, qui il punto di vista e la stessa struttura narrativa si polverizzano in una pluralità sincronica. L’autorità dei media ufficiali soccombe nell’era demo-digitale di youtube e dell’accesso randomico all’informazione. Il ruolo testimoniale non è più prerogativa indiscussa di una troupe di professionisti, ma si fluidifica facendosi onnipresente. Dalle camere di sorveglianza in dotazione alle forze di sicurezza al videocellulare del ragazzino ficcanaso di turno, attraverso una staffetta non stop dei mezzi di ripresa, il film tenta di superare, dinamizzandosi, il dogma stilistico dell’unico punto di vista che aveva caratterizzato il precedente REC. Ma questo dispendio postmodernista di mezzi e il relativismo di prospettive che determina, si rivela alla lunga un’arma a doppio taglio.
 Proprio l’espediente di presentare l’intera vicenda del condominio infestato come una diretta televisiva non stop, aveva reso infatti REC un horror così profondamente suggestivo nella sua palese economia di mezzi. La soggettiva in piano sequenza, divenuto cliché stilistico anch’esso, trovava un nuovo giustificativo diegetico che ne amplificava l’efficacia. Il “continua a riprendere”, da improbabile capriccio per i teenagers in cerca di emozioni forti di Blair Witch o Cloverfield, diventava nel primo film della coppia Plaza-Balagueró, dovere professionale maniacale, deontologia esasperata e amorale di una televisione onnivora e (auto)cannibalica. La giornalista che, con l’ambizione di fare il grande scoop della sua carriera, non smetteva di riprendere anche a rischio della sua stessa vita, passava per personaggio tutto sommato credibile, nel contesto di una tv che non sa più cosa inventarsi per tenere desti gli indici d’ascolto. 
Perfettamente motivata dal racconto, la diretta monocanale otteneva anche il risultato di intrappolare lo spettatore nel qui e ora di un incubo claustrofobico, di legarlo in ostaggio all’incauta determinazione dei personaggi, facendoci precipitare nella loro stessa follia, impedendoci anche solo di immaginare scelte alternative. Dove al contrario, REC 2 ci permette di uscire e rientrare più volte nel condominio-prigione, torna indietro nel tempo per consentirci di osservare i fatti da altri punti di vista in inutili REWIND, riconferendo allo spettatore la solita supremazia determinata dal montaggio. Una meta-posizione a cui volentieri avevamo abdicato, pur di condividere masochisticamente l’incubo del primo REC, e che invece fa somigliare tanto il condominio infestato del secondo film, alla casa dell’endemoliano GF

 

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