Nello scenario non sempre brillante della produzione cinematografica italiana, ogni nuovo film di Matteo Garrone non manca mai di suscitare aspettative ed entusiasmi, in una prospettiva di cinema d’autore che va a illuminare zone spesso scomode e maleodoranti e della quale è importante indagare il significato e il valore.
Dopo Gomorra Garrone, proseguendo nell’esplorazione del microcosmo campano, con Reality tenta di mostrare gli effetti della mutazione antropologica avvenuta in Italia a causa della televisione e del consumo omologato da essa veicolato; ma soprattutto, attraverso la parabola del protagonista, il regista prova a mettere in chiaro ciò che si muove dentro l’immaginario collettivo, ossia dentro quel bisogno costante nella storia umana di produrre sogni e fantasie condivise, che oramai si nutre di tutto fuorché della realtà. Anche se i “fabbricanti di sogni” – visto che oramai i reality show hanno esaurito gran parte della loro triste attrattività – hanno intuito ciò che la collettività voleva sentirsi raccontare con tempismo vincente rispetto a quello alla base di questo film.
Luciano, pescivendolo in uno dei tanti comuni dell'hinterland napoletano, cerca di evadere dalla realtà, fatta di duro lavoro, di responsabilità familiari e di piccole illegalità, inseguendo il sogno di entrare nella casa del grande fratello. Ben presto il sogno si trasformerà in ossessione precipitando il protagonista in un incubo nel quale Luciano si ritroverà a perdere la propria identità. Laddove più che la smania dell’apparire e il bisogno di riconoscimento, nel protagonista, perso sempre più in un labirinto di paranoie e manie di persecuzione, il voler entrare a tutti i costi nella “casa” sembrerebbe corrispondere ad un bisogno compulsivo di avere una specie di certificazione di esistenza. Così che il problema non è tanto il narcisismo latente che potrebbe ben essere alla base di una tale deriva, quanto, piuttosto, il problema più esistenziale dell’essere in questa società dei consumi. Luciano, del resto, per candore e ottimismo sembra muoversi come un Forrest Gump nostrano, dove al sogno americano (ovviamente con l’happy end) si è però sostituita la farsa (feroce) della società dello spettacolo. Potente, per le suggestioni cui rimanda, la lunga scena iniziale, girata in piano sequenza, che dall’alto verso il basso, dopo essersi allontanata dalla panoramica iniziale sulla distesa napoletana, ci porta dentro una specie di catena di montaggio dei matrimoni dove Luciano, mascherato da donna per divertire parenti e amici, incontra per la prima volta il virile Enzo, un cinico e ridicolo figuro che campa facendo comparsate in centri commerciali, discoteche e matrimoni in qualità di “ex” del grande fratello –di per se già un vivere nel passato rifiutando la complessità del presente.
A parte qualche forzatura e semplificazione di troppo e tralasciando la non originalità del tema sondato, l’analisi della perdita di Luciano nell’illusione dell’essere consacrata allo spettacolo totale del grande fratello è sicuramente convincente -è corretta-, tuttavia il film sembra scorrere via lasciando più freddezza che inquietudine, e ciò, vista anche la qualità dell’autore, merita un approfondimento.
“Abbiamo sbagliato tutto. Ci siamo illusi di potercela fare. La testa sempre insieme con il corpo. Ed io non dovevo lasciarti da sola. Perché era il tuo corpo che voleva mangiare, non la tua testa. Il peso, il peso non conta, qualcosa di più specifico, lo stesso volume, ma l’oro pesa di più. Me lo ha insegnato mio padre – Se riesci ad alzare il lingotto senza spostarlo è tuo -. E non ci riuscivo, non capivo una cosa così piccola, così pesante. Togliere tutto, Sonia, bruciare tutto, fondere le ceneri. Alla fine resta solo quello che conta veramente” (estratto dal film Primo amore riportato nel bel libro La meglio gioventù – Nuovo Cinema Italiano 2000-2006, Nuovocinema/Pesaro N.62, ed. Marsilio).
In Primo amore, penetrante e meravigliosa discesa nell’ossessione della dipendenza (la fusione dell’oro e quella –impossibile- di Vittorio con Sonia) e della perfezione della forma con le quali il protagonista vorrebbe riempire il vuoto e la perdita, elementi costitutivi dell’essere, Garrone riusciva a comunicarci il proprio desiderio (e le proprie ossessioni) attraverso lo sguardo della cinepresa –non dimentichiamo che Garrone è l’operatore di macchina di tutti suoi film e che, evidentemente, il corpo a corpo artigianale con la cinepresa imprime del suo gesto la pellicola. Il suo cinema fatto di silenzi e sottrazioni, almeno fino a Primo amore, ha sempre messo in rilievo la dicotomia cinetica dei vuoti e dei pieni e la simbologia, anzitutto figurativa, che da essi ne deriva (anche Peppino l’imbalsamatore svuotava gli animali delle viscere per restituirli al mondo in una forma perfetta). In Reality, ma prima ancora in Gomorra, il regista romano sembra invece sbilanciarsi più sul contesto e sull’oggetto – sul ritmo invece che sul tempo- riempiendo il film di accadimenti simbolici e di personaggi. Così che la rappresentazione del rapporto tra il dentro e il fuori del soggetto e della sua posizione all’interno delle relazioni umane ne esce indebolita.
L’imbalsamatore e Primo amore non erano film corali, Gomorra e Reality sì. E questa, almeno nel cinema di Garrone, a conti fatti non sembra essere una prerogativa. Perché a farne le spese sono la densità delle immagini e la profondità anche partecipativa dell’analisi. Perché ciò sembra allontanarlo dai riferimenti figurativi e tematici che lo mettevano sulla stessa linea di fuoco di Fassbinder e di Francis Bacon a favore di un cinema che, almeno nelle intenzioni dichiarate dallo stesso regista, vorrebbe emozionare passando dal registro del comico a quello del drammatico e che, invece, si ritrova a dover fare i conti con il tono del grottesco (probabilmente involontario) che da una parte raffredda lo spettatore mentre dall’altra non riesce ad essere (o forse, più semplicemente, non è proprio nelle corde dell’autore) veramente cattivo.
E’ vero che l’intenzione di mostrare uno spaccato antropologico, che accumuna Reality a Gomorra, si ricollega all’indagine psicologica e figurativa sulla natura umana presente nei suoi precedenti film, però il mascheramento e lo sdoppiamento di Luciano, alla fine decomposto in una luce bianca che ne esalta il dissolvimento che è prima di tutto del corpo, non riescono a restituirci davvero la totalità della sua person
alità. Ci rimane in parte estraneo. Come se la parabola da favola nera alla fine avesse prevalso sulla credibilità dei personaggi e sulla autenticità dello sguardo del regista.
Probabilmente il dopo Gomorra non è stato facile per Garrone, e forse il timore di perdere uno sguardo proprio sulla realtà e la sensazione di dover fare qualcosa per ottenere a tutti costi un riconoscimento hanno inciso non poco nella costruzione del personaggio di Luciano, smarrito tra l’apparire e l’essere. E chissà che allora non sia proprio questa la chiave per cogliere qualcosa di essenziale e di non così imparziale in Reality, chissà che Garrone con Reality non ci abbia voluto trasmettere una preziosa confidenza.