di Maria Giovanna Vagenas/ Un calorosissimo scroscio di applausi è esploso in sala alla fine della proiezione di L’amant d’un jour, l’ultimo film di Philippe Garrel, presentato ieri alla Quinzaine des Réalisateurs.

Garrel ritorna alla Quinzaine, due anni dopo il suo splendido L’ombre des femmes che aveva inaugurato l’evento nel 2015, con il terzo capitolo di una trilogia dedicata alla gelosia.

L’amant d’un jour mette in scena con grazia ispirata, il complesso rapporto di un trio insolito: due giovani donne, coetanee, Jeanne et Arianne si trovano a convivere con Gilles, un uomo sulla cinquantina, che è il padre dell’una e il compagno dell’altra. Con un’economia essenziale di mezzi espressivi, Garrel tocca l’anima dei suoi tre personaggi offrendoci un ritratto intimo dei loro rapporti, tratteggiati con una sensibilità esemplare.

Sul fondo di un nero e bianco ovattato, filmato dal grande Renato Berta, Eric Caravaca nel ruolo di Gilles, Ester Garrel in quello di sua figlia Jeanne e Louise Chevillotte in quello della sua compagna Arianne incarnano con un’autenticità vibrante i tre protagonisti di questo triangolo amoroso a geometria variabile.

Con molta grinta e buon umore Philippe Garrel ha risposto alle domande del pubblico della Quinzaine, illuminando vari aspetti del suo lavoro.

Il complesso di Elettra

Il personaggio principale del film è, in un certo senso, l’inconscio femminile.

Il mio punto di partenza per questo soggetto è stato questo pensiero: una ragazza diventa la migliore amica della giovane compagna del padre che ha la sua stessa età e per amicizia le presenta un altro ragazzo. La figlia non si rende conto che con questo suo atto distrugge la coppia che questa giovane donna forma con suo padre.

Dal mio punto di vista, questo suo atto è piuttosto un frutto dell’inconscio, di cui lei stessa non si rende conto e di cui noi stessi non ci rendiamo veramente conto quando guardiamo il film.

Tutto accade in maniera molto naturale, come spesso accade in questo tipo di situazioni nella nostra vita di tutti i giorni; sono delle cose che appartengono alla sfera del comportamento inconscio degli individui.

Il mio interesse per Freud risale al 1995 quando ho iniziato a leggere le sue opere che mi hanno accompagnato nel corso di tutta la mia vita.

Il soggetto del primo film di questa trilogia, La Jalousie,  era appunto quello della nevrosi femminile. L’Ombre des femmes era dedicato alla libido femminile, infine, come dicevo,  L’Amant d’un jour s’incentra sull’inconscio femminile. Volevo parlare del complesso di Elettra che Freud ha sviluppato in simmetria al complesso di Edipo. Il complesso di Elettra esprime l’amore di una figlia per suo padre ma nel mito di Elettra la protagonista si associa a qualcuno per uccidere sua madre, Clitemnestra, che ha sposato un altro uomo. Freud stesso è molto meno chiaro su questa teoria di quanto non lo sia rispetto al complesso di Edipo.  Questo è un aspetto che m’interessa molto. Anche Simone de Beauvoir ha ripreso e reinterpretato questa teoria dicendo che Freud ha semplificato troppo le cose rispetto al complesso di Elettra. In un modo o nell’altro penso che, per ognuno di noi, sia sempre molto difficile cercare di capire il sesso opposto. Non vorrei essere frainteso su questo punto: per me cercare di capire l’altro sesso costituisce l’avventura di una vita intera. Amo molto Antonioni perché il suo cinema costituisce una ricerca continua di dialogo con le donne, lo stesso vale per Godard e per Bergman. Questa è una delle ragioni principali per cui penso che l’atto di filmare sia un po’ come quello di dipingere un ritratto di donna, è un esercizio che ha una sua vera ragione di essere, non è un semplice capriccio dello spirito, per così dire.

Il bianco e nero

Quando posso, giro in bianco e nero. Direi che per un film in colore ne faccio tre in bianco e nero. A questo proposito ho già citato in passato Henry Langlois che mi diceva: Non devi mai abbandonare il bianco e nero, il bianco e nero non potrà mai scomparire perché il cinema è nato in bianco e nero!

Quando è arrivato il digitale, Henry Langlois era già morto da tempo, ma io mi sono appropriato del suo ragionamento; anch’io penso che, visto che il cinema è nato con la pellicola, questa materia non può sparire completamente. Non ho mai abbandonato il bianco e nero anche quando, durante dei decenni interi, era diventato molto difficile girare in bianco e nero, adesso lo è un po’ meno. Ho resistito.

A volte, da un punto di vista strettamente industriale, si fanno delle cose contro corrente. In arte non bisogna lasciar andare le cose, se no si disfanno, un po’ come una maglia di lana….

Dunque ho continuato a lavorare così, in bianco e nero, utilizzando la pellicola e non vedo perché dovrei smettere di farlo.

Se peraltro dovessi citare i miei film preferiti, i due terzi sarebbero senza dubbio dei film in bianco e nero!

L’amant d’un jour è il terzo film di una trilogia che era iniziata con La jalousie, a cui aveva fatto seguito L’ombre des femmes.  Ho girato questi due primi film in cinemascope, bianco e nero, entrambi durano un’ora e 15 minuti e sono stati girati in 21 giorni; qui non ho fatto altro che riprendere e ripetere questo schema.

Cosa farò dopo? Non lo so. I giovani dicono di non volere vedere dei film in bianco e nero perché si deprimono, io devo essere molto stanco perché mi faccia questo tipo di effetto!

Comunque sia, adesso penso di avere veramente voglia di girare di nuovo un film a colori…

(Risate)

La fotografia di Renato Berta

Sul primo film della trilogia ho lavorato con Willy Kurant, ma lui era purtroppo troppo anziano e malato, ad un certo punto ha anche subito un’operazione ai polmoni, il che ha reso le cose ancora più difficili.

Per potere continuare a girare con il mio metodo, cioé molto velocemente in solo ventun giorni, di solito monto il mio set in un edificio abbandonato  e faccio costruire gli interni dal mio decoratore in modo tale da poterli avere tutti in uno stesso blocco d’immagine.

Questo metodo mi permette di girare rapidamente.

L’appartamento per questo film e per quello precedente era all’ultimo piano, il che in pratica significava dovere salire e scendere continuamente le scale.  Avevo paura di chiedere questo tipo di sforzo ad un direttore della fotografia di ottantacinque anni..

A questo punto ho dunque detto a Willy Kurant che lo avrei sostituito perché avevo paura che questo lavoro potesse eventualmente costargli la vita!

Ho pensato a Renato Berta proprio perché giro molto velocemente e, possibilmente, tutta una scena in un’unica presa, o al massimo in due prese. Per questo film, che dura un’ora e un quarto, ho tre ore di materiale filmato, il che significa che non abbiamo girato molto, ma per non girare molto bisogna impiegare dei veterani, perché loro non si sbagliano mai.

Preferisco avere dei giovani davanti alla cinepresa ma dei veterani dietro la cinepresa!

Anche dei direttori della fotografia esperti possono avere un problema su una ripresa, ma il problema è di solito di scarsa importanza ed è praticamente invisibile.

Ancora prima di Kurant, avevo collaborato con Coutard e con Lubtchansky, l’ultimo di questa serie è, appunto, Renato Berta. Tutti questi direttori della fotografia hanno lavorato per la Nouvelle Vague, è gente che  ha imparato a filmare molto velocemente, perché questo era quanto esigeva la Nouvelle Vague.

Raoul Coutard, che è morto, ha fatto con me il suo ultimo film: Sauvage innocence. E’ stata un’esperienza molto commovente: Guardate qua! Questa è l’ultima volta che accendo l’interruttore della cinepresa nella mia vita e tutti se ne fregano ! diceva durate le riprese.

Purtroppo anche Willy Lubtchansky, che aveva la mia età, è morto improvvisamente fra un film e l’altro.

A questo punto, il seguente sulla lista di quelli che avevano lavorato per la Nouvelle Vague, era Renato Berta. Berta è un ottimo tecnico delle luci, riesce a creare una luce molto particolare che è tutta sua.

La musica di Jean Luis Aubert  e la poesia  Michel Houellebecq

Per quanto riguarda la musica ho lavorato con il cantautore Jean Luis Aubert su tutti e tre i film della trilogia.

Ad un certo punto della sua vita, Aubert che è alla base un cantante popolare, si è dedicato a mettere in musica i poemi di Michel Houellebecq, tratti dalla raccolta Configuration du dernier rivage. Lo ha fatto con molto successo, peraltro.

Personalmente ho letto solo due romanzi di Houellebecq ma c’era una canzone di Jean Luis Aubert, fra quelle scritte sui testi di Houellebecq, che mi era piaciuta molto: Lors qu’il faudra, quando l’ho sentita, l’ho subito ‘visualizzata’, per così dire.

Inoltre ero anche in debito verso Jean Luis Aubert. Quando Aubert aveva composto la musica per il primo film della trilogia, non avevo  budget per pagarlo. In un primo tempo gli avevo proposto di ricambiare il suo favore facendo un clip per lui. Mi sono accorto, purtroppo, che il mondo della musica e quello del cinema sono ben separarti; non sono infatti riuscito a trovare nessun produttore di cinema pronto a finanziare una video clip.

A questo punto ho avuto l’idea di girare un’intera sequenza all’interno del mio film, sulla musica di Lors qu’il faudra, in modo che Jean Luis Aubert la possa utilizzare come clip. E la sequenza della festa, dove si vedono le due ragazze ballare con diversi partner. Trovo che il testo della canzone si adatti perfettamente alla situazione che le due eroine stanno vivendo.

Ecco vedete, quello della canzone è stato un semplice baratto, un po’ come la Quinzaine des Réalisateurs rispetto alla Competizione ufficiale!

(Risate)

Conclusione

E per compensare l’infelicità della propria infanzia che si diventa artisti; è certamente così, ed è per questo che si ha qualcosa da dire….

Si diventa artisti per compensazione!

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