Jean-Charles Hue, artista e cineasta francese, ha iniziato a filmare le avventure dei Dorkel, una famiglia Yéniche del nord della Francia, nel 2003. In seguito il suo interesse per la ripresa diretta del reale e la sua voglia di conoscere, in prima persona, l’esistenza umana nei suoi aspetti più crudi e violenti, lo spingono ad esplorare la città di Tijuana in Messico, uno dei luoghi più pericolosi al mondo. Nel 2009 realizza il suo primo lungometraggio documentario, Carne Viva, in cui esamina l’universo anarchico, spietato e cruento di Tijuana. Il film è stato presentato in Concorso al Torino Film Festival. Nel 2010 gira La BM du Seigneur, la sua opera prima di finzione. Mange tes morts può essere visto come il seguito di questa pellicola: mette in scena gli stessi personaggi, la famiglia Dorkel. Jean-Charles Hue ha conosciuto i Dorkel circa vent’anni fa e ha avuto il raro privilegio di venire accettato in seno alla loro comunità. Il suo lavoro è frutto di un’autentica immersione in questo mondo, tutte le storie che racconta le ha vissute lui stesso, sulla sua pelle. Mange tes morts ritrae delle figure autentiche con un codice d’onore e delle tradizioni che si tramandano da una generazione all’altra e fanno la fierezza di questo popolo nomade, sopravvissuto nel tempo, ribelle e in completa autarchia.
Ho incontrato Jean Charles Hue a Cannes, subito dopo la prima di Mange tes morts alla Quinzaine des Réalisateurs. Entusiasta, aperto e molto disponibile il regista, ancora carico delle emozioni dell’accoglienza trionfale riservata al suo film e al foltissimo gruppo dei suoi attori – la famiglia Dorkel e i loro amici al gran completo – si è generosamente prestato ad uno scambio di idee.
Mange tes Morts – Mangia i tuoi morti è un titolo pugno-nello-stomaco. Cosa significa?
Per la comunità dei viaggiatori Yéniche queste parole sono tabù, non bisogna mai pronunciarle perché possono avere delle conseguenze molto gravi… La frase significa: rinnega i tuoi antenati! Mettendo un titolo come Mange tes morts sul cartellone di un film ero ben cosciente di quello che facevo. Questo titolo darà certamente fastidio ad alcuni, bisogna però capire che la frase non è indirizzata né alla comunità dei viaggiatori, né a chi legge il poster, ma piuttosto a chi si oppone apertamente a loro, a chi non li rispetta o – peggio ancora – a chi vuole assimilarli, tout court.
In queste ultime decadi la comunità Yéniche ha fatto dei passi verso il mondo “gadjo”, cioè il nostro mondo, per cercare di trovare un’intesa, instaurare una comunicazione, questo però non significa che voglia rinnegare il suo modo di vivere.
Personalmente ritengo che nei paesi industrializzati del mondo occidentale si faccia avanti una tendenza, sempre più marcata, ad annichilire “l’Altro” nella sua differenza, nella sua specificità. Non si tratta, almeno in Francia, di un sistema fondato su un volontarismo radicale e paranoico, ma piuttosto di un atteggiamento che mira ad uniformare, smussare la diversità.
In questo contesto la frase Mange tes morts è un grido di rivendicazione e di ribellione rivolto a tutti coloro che, in un modo o nell’altro, vogliono spingere la comunità Yéniche a rinnegare se stessa, la sua identità e le sue tradizioni.
Il mondo del film è un mondo d’uomini, le donne sono presenti solo in maniera periferica. Qual è il ruolo, la posizione della donna nella comunità Yéniche?
Innanzitutto bisogna dire che le donne stesse non desiderano particolarmente mostrarsi, esporsi alla cinepresa, c’è una sorta di pudore ma, all’interno della comunità, le donne non sono da meno degli uomini, ti assicuro di averne fatto ampiamente l’esperienza durante le rirpese! (ride) La storia raccontata nel film è, in effetti, una storia di soli uomini, ispirata ad un’avventura a cui avevo partecipato io stesso, una decina d’anni fa. Nel film però c’è pur sempre Violette, la mamma dei Dorkel, che cerca di tenere unita la famiglia, si sforza di annullare le differenze e i malintesi fra i suoi ragazzi e lotta per convincerli a vivere una vita onesta. Violette è una donna meravigliosa, è stata la prima persona della comunità che ho incontrato, vent’anni fa e, se sono stato accolto ed accettato in seguito dal gruppo intero, so di doverlo solo a lei.
Quali sono le sue relazioni con la comunità nomade degli Yéniche?
Ho trascorso molto tempo con loro, un po’ come avrei fatto con la mia stessa famiglia. Andavo a trovarli ad intervalli regolari; una volta stavo lì durante tutta l’estate, un’altra per due o tre settimane, poi magari li visitavo solo per due giorni o passavo semplicemente per bere un caffè. Tutto questo è successo nell’arco di 18 anni. Frequentandoli volevo innanzitutto conoscerli e poi volevo inventarmi una vita… L’idea di fare un film mi è venuta molto più tardi.
Qual è stato il suo tipo di approccio?
Io ho una formazione artistica; il mio primo incontro con la comunità corrisponde proprio con l’inizio dei miei studi all’Accademia di Belle Arti. Mi sono innanzitutto interessato alla pittura, quella di Jeronimus Bosh e soprattutto di Bruegel. Bruegel era un notabile che guadagnava molto bene per l’epoca, nonostante ciò, per poter attuare in maniera veritiera ed accurata la sua arte, lui e suo figlio si vestivano da contadini ed andavano a visitare i paesani, si mischiavano con loro, s’infiltravano alle feste di matrimonio per vedere da vicino com’erano. Ho citato Bruegel, ma avrei ugualmente potuto parlare di scrittori come Jenet, Céline, Rimbaud o di personaggi come Laurence d’Arabia, tutti questi hanno vissuto qualcosa di prima mano e ne hanno scritto solo in un secondo tempo, facendo in un certo qual modo circolare la saggezza. Per trovare se stessi, bisogna innanzitutto vivere, andare all’incontro dell’altro: “Je est un autre” come direbbe Rimbaud.
Uno degli aspetti più marcati di Mange tes morts è la compenetrazione straordinariamente organica fra la dimensione documentaria e il versante immaginario della storia. Com’è nata quest’alchimia fra realtà e finzione?
Mi piace molto questo riferimento all’alchimia, di fatto riflette molto bene il processo con cui il film si è venuto a creare. Per altro l’idea del processo alchemico è un qualcosa che mi sta a cuore da tempo. Nel passato ho lavorato per un certo periodo a Murano, dove facevo fabbricare degli oggetti. Per me i maestri vetrai sono dei veri e propri maghi capaci di trasformare, modellare una materia – il vetro- attraverso un’altra materia, il fuoco. L’idea della trasformazione mi affascina. Tornando a Mange tes morts, direi che per me due grandi correnti hanno definito il processo creativo del film: da un lato la scoperta della comunità dei Yéniche, l’incontro con la loro cultura e con la loro maniera di vivere e dall’altro quello che ne ho ricavato per me stesso, l’avventura umana che ho vissuto di prima persona.
In Mange tes morts si sente una forza quasi mitica, qualcosa dell’ordine del racconto orale. Potremmo benissimo immaginare la storia del film come una storia che circola, che passa nel racconto da una generazione all’altra…
Sì, in effetti io mi sento di far parte di questa tradizione, quella dei trovatori…
Come è riuscito a tradurre la ‘mitologia’ della comunità Yéniche in immagini?
Le cose si sono fatte poco a poco perché, io stesso non ero in grado di capire tutto all’inizio e, in un certo senso, penso di non averlo completamente compreso neanche oggi. Per me si trattava, in primo luogo, di vivere una vita nuova. Ad un certo momento ho sentito la necessità di compiere una trasposizione artistica di quest’esperienza. Sarebbe potuto succedere attraverso la pittura, la scrittura o altro; mi sono deciso per il cinema. Amo il cinema che mescola vita vissuta, aspetto documentario e finzione come accade in certi film di Herzog o come fu il caso di Francis Ford Coppola in Apocalipse Now, un film le cui rirpese stesse sono state altrettanto folli, se non più folli ancora, del film stesso. Ad un certo punto la vita personale di Coppola, il suo rapporto di coppia e quello con i suoi attori erano direttamente implicati in questo processo: vita vissuta e riprese erano diventate tutt’uno, un magma organico. Io penso che sia proprio in questo tipo di condizioni che riusciamo a dare il meglio di noi stessi proprio perché l’implicazione personale va ben oltre l’impegno richiesto da un semplice mestiere!
Come si è messo in moto il progetto del film? Alla base della sceneggiatura c’era una storia precisa?
All’origine della sceneggiatura c’è una storia vera che ho vissuto in prima persona, una decina d’anni fa, nel corso di un giro in macchina con loro, solo che al volante della macchina non c’era Frédéric, come nel film, ma suo zio Pierrot, per questo il film è dedicato a lui. Quella notte, più di una volta, ci è mancato poco che ci facessero fuori! Ad un certo punto nel bagagliaio della macchina rubata abbiamo trovato una grande quantità di occhi di vetro: la prima cosa che abbiamo visto aprendolo era una massa di pupille che ci fissavano nell’oscurità. La macchina apparteneva ad un dottore, chissà forse era qualcuno che si dedicava a rabberciare cadaveri.
Ecco, per me, questa è mitologia!
Mange tes morts è un film profondamente toccante, autentico, fatto di emozioni vere, si sente che tutto viene da dentro, dalle viscere…
Mi fa piacere sentirtelo dire perché per me questa è la meta più bella da raggiungere, se si ama il cinema! Per riprodurre in modo credibile quest’avventura restando fedele all’universo degli Yéniche ho cercato un approccio organico che conciliasse l’autenticità con le esigenze artistiche del mio lavoro. Volevo che il film rispecchiasse anche il mio percorso, il mio credo: “Per vivere bisogna creare, bisogna creare per vivere!”
Coma ha lavorato con i suoi attori che, pur avendo un enorme talento, sono tutti dei non professionisti?
Nel dirigere gli attori mi ispiro a registi come Cassavetes. I miei attori sono delle persone che mi sono vicine, abbiamo un linguaggio e dei codici comuni anche a livello personale. Ho semplicemente domandato loro di portare in immagine il loro vissuto pur sapendo che per loro non era una cosa ovvia. Gli Yéniche sono infatti protestanti evangelici e non hanno il culto dell’immagine. Non bisogna dimenticare inoltre che la tradizione gitana è meramente orale; raramente si trovano delle tracce scritte e ancora meno delle fotografie nella comunità Yéniche.
In questo senso chiedere alle persone della comunità di ‘fabbricare’ con me un’immagine era un esercizio completamente fuori dall’ordinario. Mi è costato parecchio convincerli!
Dopo avere vinto la reticenza della comunità a prestarsi all’esercizio delle immagini, come si sono svolte le cose?
Dopo averli convinti a recitare nella pellicola è stato tutto più semplice, in fin dei conti nella trama ne va della loro mitologia e non possono fare altro che esprimerla! Poi bisogna dire che sono degli attori nati perché il loro mestiere, da generazioni, è proprio quello di adattarsi a tutte le circostanze e a tutti i mestieri. É così che sono riusciti a sopravvivere nel tempo.
Evidentemente, a questo punto, per un cineasta sorge la domanda: in che modo devo costruire le immagini affinché siano “giuste”? Ho cercato di trovare un equilibrio fra la vita vissuta sul set e fuori dal set e le esigenze tecnico-professionali di questo processo. La mia intenzione era quella di trasformare l’esperienza delle riprese in un’esperienza vissuta e sentita; diversamente né ci saremmo divertiti, né saremmo arrivati a produrre dei buoni risultati.
Evidentemente non si possono affrontare gli attori – tantomeno gli attori non professionisti – con un atteggiamento del tipo: “Stammi bene a sentire perché io sono il regista e devi ascoltarmi!”
Il rapporto con gli attori è molto complesso e difficile da definire: ad un certo momento la relazione può essere più carnale poi può essere più intellettuale, comunque sia, non bisogna avere il tempo di creare delle categorie per questo processo. Ammetto che non è stato semplice; ci sono state spesso delle situazioni esterne alle riprese – delle liti, delle tensioni, molta fatica – che mi hanno messo sotto pressione. In questi casi bisogna sapere pronunciare le parole giuste al momento giusto ma è proprio per questo che mi piace fare cinema; in fin dei conti essere regista è un po’ essere come uno stregone!
Il montaggio è stato difficile?
Il montaggio è stato, direi, essenziale. Durante il montaggio la finzione ha ripreso i suoi diritti sull’aspetto più documentario, tutti i piccoli brandelli di finzione hanno trovato il loro posto e hanno contribuito a creare l’universo del film. Per me il giallo, il film noir, il western ed altri generi come il cinema fantastico o il cinema di poesia come quello di Paradjanov sono già in nuce nel mondo dei gitani Yéniche, in questo senso non mi sembra di averli portati verso il cinema di genere, direi piuttosto che sono stati loro ad accogliere il cinema in seno alla loro comunità.