Tra il ’62 e il ’72 Rohmer realizza un’operazione piuttosto unica nella storia del cinema ovvero sei film la cui trama di fondo è sempre la stessa: La fornaia di Monceau, La carriera di Susanna, La mia notte con Maud, La collezionista, Il ginocchio di Claire e L’amore il pomeriggio. In tutti i film si assiste puntualmente, infatti, ai turbamenti e alle esitazioni di un personaggio maschile che, nel momento in cui è legato o sta per legarsi alla donna che lui ritiene “quella della sua vita”, ne incontra un’altra, del tutto diversa, che fa deviare momentaneamente il suo cammino, tutto questo prima che il Caso lo riconduca alla prima donna. Chiameremo ELETTA la prima donna, e SEDUTTRICE la seconda. Si tratta di un progetto unico, che Rohmer coltivava da molto tempo (tutti i racconti, tranne l’ultimo, erano già usciti come novelle) e che poi ha pazientemente realizzato nel corso dei suddetti dieci anni.
Rispetto allo schema fondamentale ogni film costituisce una variante, una diversa combinazione degli elementi possibili: se in La fornaia, La carriera di Susanna e La mia notte con Maud, ad esempio, l’eletta è ancora da conoscere e corteggiare, in Il ginocchio di Claire e La collezionista è già la fidanzata del protagonista (ed è pressocché‚ assente dallo schermo), mentre in L’amore il pomeriggio ne è addirittura la moglie. Così in La carriera di Susanna il protagonista prova ripulsa, anziché attrazione, verso la seduttrice, mentre La collezionista e Il ginocchio di Claire si distinguono poiché “l’avventura” (anzi, più esattamente la mancata avventura) si svolge in un luogo di vacanza… L’elenco potrebbe continuare a lungo, ma quel che ci interessava in questo caso era solo far capire il senso complessivo del progetto, cioé quello di costruire tante variazioni su uno stesso tema.
Un’altra caratteristica di questi film è quella di essere, appunto, dei Racconti morali, cioé un insieme di fatti scelti, organizzati e commentati da un narratore, sempre il protagonista, la cui voce over, secondo dosi ogni volta diverse, accompagna le immagini (in Il ginocchio di Claire è del tutto assente, poiché il protagonista ha una confidente, cui racconta tutto, già dentro il film). Questo commento parallelo in prima persona, oltre a fornire le solite informazioni spazio-temporali, permette allo spettatore di seguire il corso dei pensieri del protagonista durante l’azione. La sua voce parla al passato (quasi sempre al tempo imperfetto), ma il distacco temporale in questo caso non produce un grande aumento di saggezza: il narratore, infatti, non da’ l’impressione di saperne molto di più del personaggio, non fornisce anticipazioni sul futuro, né ragguagli sul passato. Si attiene invece strettamente ai fatti presenti anche nelle immagini, riflette su di essi ma senza manifestare rimpianti né creare un senso di “tutto già deciso” (come nei film noir). Il racconto, anzi, alimenta una sorta di suspence. Lo stesso Rohmer, sia durante la sua attività di critico, sia nelle interviste rilasciate in seguito si è pronunciato spesso sui temi della parola, dei dialoghi, del testo e dei loro rapporti con l’immagine. A proposito dei Racconti, nella prefazione al libro che ne pubblica le sceneggiature scrive:
La mia intenzione non era di filmare degli eventi nella loro realtà, ma il RACCONTO che di essi faceva qualcuno.(…) Una delle ragioni per cui questi racconti sono definiti “morali” risiede nel fatto che sono quasi completamente privi di azioni fisiche; tutto avviene nella mente del narratore. I miei eroi, un po’ come Don Chisciotte, si comportano come personaggi di romanzo, ma forse il romanzo non c’è. La presenza del commento in prima persona non è dovuta tanto alla necessità di esternare pensieri intimi, impossibili a tradursi attraverso l’immagine e il dialogo, quanto al desiderio di puntualizzare in modo inequivoco il punto di vista del protagonista, trasformandolo nell’oggetto della mia stessa visione di autore e di cineasta.
E’ in quest’ultima frase il nodo cruciale, la chiave per capire l’uso rohmeriano del commento: il racconto over, lungi dal corrispondere o anche solo dall’avvicinarsi al punto di vista dell’autore del film, rappresenta l’OGGETTO della sua visione. Ciò che Rohmer ha voluto filmare è un punto di vista soggettivo, una delle tante storie che si possono raccontare sullo stesso evento, lasciando alla messa in scena, alle immagini il compito di suggerire altre interpretazioni, e talvolta di smentire clamorosamente il narratore. Come nel finale del Ginocchio di Claire, quando la macchina da presa ci fa vedere tranquillamente riconciliata la coppia di cui il protagonista Jerôme era convinto di aver “giustamente” causato la separazione. In questo finale c’è tutta la misura della resistenza che la realtà oppone a chi crede di poterla forgiare secondo la propria volontà. Una delle costanti dei Racconti, come delle successive opere di Rohmer (un esempio è Perceval le gallois), è proprio un protagonista guidato da un’idea fissa che mal sopporta il confronto con la realtà. E’ vero che il Caso lo riconduce sempre all’ideale di partenza (l’eletta) ma intanto una crepa sottile si è insinuata nella felicità sognata, forse la consapevolezza di un’occasione perduta. Rohmer s’incarica sempre di portare una nota d’amarezza nell’apparente lieto fine.
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e una storia e contemporaneamente come il protagonista la rappresenta nella sua mente, una realtà oggettivata nell’immagine e un racconto soggettivo, con la stessa neutralità, senza prendere posizione; questa sembra essere la strada scelta da Rohmer che, nell’abbondanza di discorsi, spiegazioni, commenti presenti nei suoi film, mette lo spettatore nella condizione di andarsi a cercare la “verità” del film proprio nelle vaste zone del non-detto, nelle sfasature fra testo e immagini, fra parole e comportamenti.C’è sempre qualcosa che non convince nella versione fornitaci da questi narratori, tutti accomunati per altro da una certa sicurezza nelle affermazioni e dotati di un linguaggio chiaro, di un’esposizione piana e lineare che rendono ancora più sconvolgente la scoperta (da parte dello spettatore) delle “cantonate” che prendono. Il protagonista della Fornaia di Monceau, ad esempio, durante le sue vane peregrinazioni alla ricerca di Sylvie (l’eletta), rimane colpito da una giovane fornaia e prende l’abitudine di recarsi ogni giorno nella sua panetteria, talvolta persino a più riprese, a costo di dover ingurgitare un numero sempre maggiore di paste frolle che lui stesso giudica “né meglio né peggio di quelle che avrei trovato in un altro forno”. Il gioco gli prenderà la mano e giungerà a farle una corte sfacciata tanto da rincorrerla per strada e metterla, letteralmente, con le spalle al muro per strapparle un appuntamento.
Se non ci fosse il commento, ci sembrerebbe di assistere a un tentativo del protagonista di conquistare una giovane fornaia che, da parte sua, appare compiacente, forse turbata, ma le cui intenzioni rimangono misteriose fino alla fine. Nel racconto over, invece, il narratore, cui “piacere a una ragazza pareva ovvio” e che dichiara di essere infastidito dal solo fatto che la fornaia potesse pensare di piacergli, si autorappresenta senza alcun indugio come la vittima di una seduzione, il destinatario di esplicite avances, che lui si limita ad assecondare perché “era un modo come un altro non soltanto di passare il tempo, ma di vendicarmi di Sylvie e della sua assenza.” Tutti gli atti della fornaia, persino i rifiuti, gli appaiono come mosse calcolate per sedurlo tanto che nel finale non ha dubbi che il ritardo sul luogo dell’appuntamento, reso così opportuno dal casuale incontro con Sylvie, sia dovuto alla pioggia.
Fine prima parte
(Questo saggio è stato realizzato per una tesi di laurea dedicata all’uso delle voci narranti nel cinema francese. Lo pubblichiamo per rendere omaggio a un professore-cineasta che di tesi, sicuramente, ne ha ispirate tantissime.)