Trovare un testo letterario nel quale poter fare la sintesi di un’esperienza cinematografica ma anche umana cominciata più di quarant’anni fa, è stata probabilmente la motivazione che ha spinto James Ivory, il suo produttore Ismail Merchant e la sceneggiatrice Ruth Prawer Jhabvala ad avvicinarsi a Quella sera dorata, il romanzo dello scrittore statunitense Peter Cameron che nel titolo originale, The City of Your Final Destination, evoca ben altre suggestioni e riflessioni.
Come ha detto Ivory durante la presentazione del film alla Casa del Cinema a Roma, tutte le storie che ha sempre scelto di raccontare rappresentavano l’incontro della formazione e delle sensibilità del suo storico nucleo di lavoro: l’indiano trapiantato in Gran Bretagna, Ismail, la tedesca di nascita, poi divisa tra l’India e l’Inghilterra, Ruth e James, il californiano conquistato dalla vecchia decadente Europa.
In queste parole vibrava un filo di commossa emozione, in particolare nel ricordare “Ismail”, visto che il produttore di tutta la filmografia ivoriana, da Il Capofamiglia a La Contessa Bianca è scomparso nel 2005, prima di poter partecipare alla realizzazione di quest’ultimo progetto. Per questo, a posteriori, e dopo aver incontrato di persona un Ivory ormai invecchiato, sempre sull’orlo dell’elegante ironia ma attraversato anche da un pizzico di malinconia, non possiamo non immaginare che in quella “Final Destination” ci sia anche un omaggio a Merchant e dunque la volontà di tradurre la storia raccontata da Cameron dentro un mondo più personale.
Quella grande casa padronale immersa nella terra selvaggia di una sperduta, isolata regione dell’Uruguay, dove arriva un giovane professore universitario per scrivere la biografia dello scrittore esule per scelta e morto suicida, Jules Gund, è un luogo nel quale sia Cameron che Ivory costruiscono un nucleo familiare e affettivo alternativo, messo in crisi nel suo equilibrio precario e nelle sue dinamiche inesplose da un estraneo, che però non distruggerà ma infonderà nuova linfa e darà una nuova forma a quel gruppo di persone così eterogeneo. Se la motivazione ufficiale della visita del ragazzo è chiedere e ottenere l’autorizzazione per scrivere la biografia di Gund da parte dei suoi eredi, ben presto la storia si sposta dall’attenzione per la vita dello scrittore, che rimane una presenza enigmatica e non spiegata, alla focalizzazione delle dinamiche dei rapporti tra i personaggi, ovvero: la moglie legittima, il fratello e l’amante, nonché madre dell’unica figlia, i quali avranno tutti modo di cambiare, crescere, esprimersi, essere ascoltati. In questo senso Ivory, e la scrittura sapiente della Jhabvala in fase di sceneggiatura, imprimono alla narrazione di Cameron il gusto, la sensibilità, la leggerezza coltivate negli anni con Merchant in una produzione ricca e variegata, che va dai primi melodrammi familiari ambientati in India, agli adattamenti letterari di Henry James ed Edward Morgan Forster, in una continua conversazione con culture, epoche, contesti sociali differenti ma messi in comunicazione, dove il conflitto, per una precisa scelta quasi utopica, non si arena mai nella tragedia e cerca, trovandola spesso, una riconciliazione.
La “Final Destination” di Ivory/Merchant non è dunque solo un luogo geografico ma anche una sorta di limbo dove tutto rimane sospeso, sussurrato, accennato, dov’è possibile prendersi il tempo per elaborare e superare la morte come quello per far nascere e crescere una nuova relazione. Nel caso specifico quella tra i due personaggi più ricchi di utopia e di entusiasmo per la vita e per la possibilità di un futuro rigenerante: il giovane professore vessato da una fidanzata autoritaria e troppo razionale, e l’amante dello scrittore defunto, anche lei a suo modo repressa dalla presenza della moglie ufficiale, con la quale mantiene un complicato legame di affetto, remissiva complicità e sottomissione.
Nella liberazione e nella rivelazione di questo rapporto, Ivory individua una sorta di circolo virtuoso per cui ognuno degli altri personaggi, a catena, troverà la propria reale dimensione affettiva e psicologica. Come il vecchio fratello dello scrittore che accetterà, incondizionatamente, l’amore del suo giovane amante orientale dopo aver tentato di allontanarlo per fargli vivere la sua vita; o come la vedova portata a liberarsi dell’ingombrante e paralizzante memoria del marito, bruciandone un manoscritto inedito e abbandonando la tenuta alla quale ormai sente di non appartenere più.
Un girotondo di vite definito mozartiano dallo stesso Ivory, che infatti chiude la vicenda su un palcoscenico di un’opera lirica e che, a livello stilistico e formale, traduce con un’ariosa leggerezza, un’apertura di inquadrature verso l’Uruguay immaginato da Cameron e un compassionevole tenero sguardo verso degli esseri umani eccentrici e complicati, dove confluiscono sia l’anima yankee dell’espatriato in grado di mantenere la giusta distanza, sia un’indubbia affinità e attrazione nei confronti del carico di cultura e di antico splendore che forma la patina della famiglia Gund.
In effetti, quando vidi il film all’ultima edizione della Festa del Cinema di Roma, la reazione che mi provocò fu di rifiuto, irritazione e noia, e mai mi sarei calato in un’analisi appassionata di ciò che rappresentavano quei personaggi per il mondo di Ivory, limitandomi a liquidare come estetizzante ed elegante formalismo l’ennesima trasposizione cinematografica di un best seller salottiero. Invece, ripensando alla filmografia di questo cineasta davvero indipendente dai canoni produttivi ed estetici dell’Industria, mi sono reso conto di quanto sia riduttivo fermarsi alla forma del suo cinema, sfuggendone o ignorandone la profonda comunione con le storie che racconta. Aver accolto e percepito il brivido che scorre sotto la limpidezza e i preziosismi delle sue immagini, mi ha fatto (ri)scoprire con piacere un tumulto di passioni sotto il controllo molto pacato di una sera dorata.