A volte le opere riescono – anche parzialmente – nonostante il loro autore.
Metti una sera al cinema. Metti che una sera l’amicizia vi spinga a mollare sul tagliere la preparazione del vostro piatto preferito e, morsi nelle terga dalla progressione delle lancette che sul grande orologio alla parete ammoniscono minacciose contro il precipitare verso il ritardo (dopodiché per voi ci saranno solo l’onta, la fustigazione e l’esilio) insomma, metti che vi fiondiate fuori di casa sfidando con spirito zen – peraltro a voi estraneo – il delirio dell’Aurelia quando manca poco più di mezz’ora all’inizio dello spettacolo; metti che il luogo del vostro appuntamento col destino sia Trastevere (alle otto di sabato sera!); metti pure che cagione di tale supplizio siate stai voi stessi, colpevoli dell’opzione geografica sbagliata.
EBBENE
Perché, in nome del cielo, perché tutto questo per QUEL film? Si fa persino fatica a pronunciare il nome del regista, tanto è l’imbarazzato stupore con cui si accoglie la firma – e con essa il volto, la storia personale – che accompagna il titolo.
Quando c’era Berlinguer, regia di Walter Veltroni.
«Ma come!», ci siamo detti sghignazzando tra amici e conoscenti. «Ma come! Proprio il piacionismo bonario e molle della Sinistra italiana, la versione patinata del dopo-Occhetto-dopo-Natta molto post post post very pop, l’officio della liturgia hollywoodiano-kennedyana in salsa pomodoro e basilico hanno il coraggio anzi, la spudoratezza di propinarci una loro visione di Enrico Berlinguer, IL Comunista perbene? E che avranno mai da dirci, costoro, che non sia falsificazione della Storia?» E giù un’infinità di feroci battute dilaganti sui social.
Se non che, scherzi del suddetto destino cinico e baro, in nome dell’amicizia vi trovate una sera di sabato davanti all’ingresso di un cinema, nel cuore di Trastevere e una semplice constatazione vi insospettisce e intenerisce insieme: c’è così tanta gente che la fila si allunga sul vicolo. Così, allungando insieme a essa occhiate dietro, davanti e intorno a voi, notate che non ci sono soltanto gli over 50 (i soliti nostalgici, vi viene da pensare impietosamente) ma agognano il biglietto quarantenni come voi e anche persone più giovani. Accanto a voi, in sala, si accomoda una coppia di ragazzi poco più che ventenni.
D’accordo allora, mettiamoci comodi e guardiamo questo documentario girato da Walter.
Scende il buio, il brusio s’interrompe, sullo schermo fanno la loro apparizione due ragazze e un ragazzo al centro, giovanissimi. Si rivolgono direttamente alla telecamera: «Chi era Enrico Berlinguer? Un commissario?». I volti tradiscono il disorientamento davanti a una domanda troppo ardua per le loro nozioni di storia contemporanea. Veltroni apre così, con una carrellata di interviste raccolte ponendo una domanda semplice semplice, di cui non udiamo mai la formulazione ma che intuiamo nitidamente dalle risposte. Possiamo immaginarlo mentre la rivolge a bruciapelo a molti giovani dello Stivale e a qualche più maturo individuo, quasi sempre con il medesimo risultato: nessuno sembra ricordare chi fosse uno degli uomini più significativi della nostra storia nazionale. Non solo nazionale, in verità.
Colpisce, in questa sequenza introduttiva, che tra i pochissimi a ricordarsi chiaramente di lui siano un ragazzo di probabili origini non italiane e alcuni giovani professionisti molto in stile LUISS o Bocconi. Per quanto riguarda la generazione dei tardo adolescenti, invece, non c’è speranza. Tutti equanimemente intaccati dalla smemoratezza.
Dopo di che, il film procede attraverso una sorta di breve anticamera, in cui un anziano Marcello Mastroianni ci parla dell’importanza della memoria, affidando alle nostre perdute coscienze un detto navaho: tutto quello che dimentichi ritorna a volare nel vento.
E lì, Walter Veltroni non sa o non vuole resistere alla tentazione di abbandonarsi a una retorica melensa. Vuole mostrarci a tutti i costi il prato di Piazza San Giovanni in un bianco e nero anticato, cosparso di fogli di giornale stropicciati, accartocciati, che l’elemento aereo sospinge a casaccio, rovine labilissime di un tempo che non esiste più. Avvitato in uno di quei fogli si intravvede quel nome. Poi l’obiettivo si allarga, la cinepresa prende a salire e in campo lungo, dall’alto, osserviamo questa piazza, teatro e simbolo di numerosi eventi, appena alle spalle delle statue che sormontano il frontone della basilica. Mentre seguiamo questa carrellata, un pianoforte grondante melassa solleva onde ancora più fastidiose di retorica stucchevole. Cominciamo a pensare che se la proiezione va avanti in questo modo, o i nervi o l’amicizia sono a rischio.
A quel punto però, il nostro ci tira il primo colpo basso: all’immagine patinata si sostituisce quella, sgranata, con il logo RAI a pixel bianchi di tanto tempo fa, della medesima piazza abbracciata dall’identico punto di ripresa, il giorno dei funerali di Enrico, il nostro Enrico Berlinguer. E allora, nel rivedere dopo tanti anni quella moltitudine compatta, silenziosa, quell’oceano variopinto di teste e magliette e camicie e braccia tese, ci sentiamo attraversare da un’onda di commozione che ci scuote dalla testa ai piedi. Proviamo qualcosa che ci turba senza nemmeno esserne consapevoli, vediamo quel gesto che oggi ci appare lontano come il segnale di ritorno da una sonda spaziale sperduta nel buio del Cosmo. Il pugno chiuso. Vediamo quel pugno e i volti rigati di lacrime, ragazzini aggrappati alle inferriate delle finestre, donne vecchissime col fazzoletto sulla testa, madri, uomini che piangono come bambini. Per chi ha ancora un legame affettivo con quell’epoca, queste immagini di repertorio divorano di struggimento l’anima. Forse perché di colpo ci viene fatto ricordare che è esistito un tempo in cui abbiamo creduto alla possibilità di essere, collettivamente, migliori di così, di come siamo oggi. Ci viene ricordato che per un terzo delle donne e degli uomini italiani, il simbolo incarnato di quel mondo migliore è stato uno di loro, di noi, un uomo piccolo e magro, mite, forte.
Questo sarebbe un grande merito del film, la restituzione della memoria e della sua dimensione affettiva, se Veltroni avesse compiuto il viaggio con onestà intellettuale a tutto tondo. E avremmo anche potuto perdonargli l’assimilazione della figura di Berlinguer dentro la melassa iconografica della cultura pop e postmoderna, se avesse avuto il coraggio di ficcare lo sguardo in modo più generoso, sincero dentro i fatti che ricostruisce. Ma il vizio del politico regista, al pari di quello dell’intera comunità che rappresenta – noi tutti, come nazione e come individui – è il nascondimento entro una certa ipocrisia autoassolutoria che non ama fare i conti con le sue responsabilità. Cosa che emerge in un paio di passaggi.
Diciamo anzitutto che Veltroni fa del suo documentario, della parte propriamente documentaristica del film – escludendo cioè le appendici posticce di finzione narrativa che avrebbe fatto meglio a risparmiarci – un’opera storica e storiografica molto interessante. Pregevole è per diversi aspetti il montaggio dei documenti d’archivio e delle interviste fatte alla figlia Bianca e ad alcuni uomini che, per la loro funzione e posizione di allora, sono ancora oggi in grado di fornirci testimonianze di enorme valore intorno alla figura di Berlinguer. Da un lato, ci dice in modo a tratti toccante – ben al di là o persino a dispetto della voce fuori campo dell’autore – quanto e quale sia l’affetto di Veltroni per Berlinguer, la qual cosa inevitabilmente coinvolge l’emotività dello spettatore. Dall’altro, riesce a restituire la statura di un uomo eccezionale per impegno civile, profondità di analisi, complessità di visione, delicatezza d’animo, forza morale, saldezza di opinioni, capacità dialettica tanto all’interno quanto e ancor più all’esterno del partito, integrità sul piano del comportamento e della coerenza. Ancora, attraverso questo documento cinematografico possiamo oggi capire meglio il senso delle scelte fatte da Berlinguer verso la costruzione del cosiddetto Compromesso Storico e comprendere le cause, forse non tutte ma le principali senz’altro, del paradossale avvitamento del Partito Comunista Italiano su sé stesso dopo le elezioni vittoriose del 1976. Non è questa la sede di analisi politologiche, naturalmente, ma vale la pena di sottolineare il fatto che le vicende dolorosissime accadute tra il 1976 e i primissimi anni 80 mostrano, nella ricostruzione di Veltroni, aspetti che oggi dovrebbero riaprire una riflessione attenta e ben più articolata di quanto ormai, tristemente, siamo abituati a fare. Ci parlano di un PCI che, lanciato verso un grande successo di massa grazie alla sapiente strategia di Berlinguer, resta poi impantanato e infine del tutto bloccato in una involuzione verso il tatticismo. Forse perché nell’Italia eterodiretta dell’epoca viene fatto mancare il terreno di coltura del cambiamento? Oppure perché è mancato il coraggio dell’ora estrema? L’esempio del Cile aveva terrorizzato il PCI? Sono le ipotesi sollevate dal film. In questo, è un film importante.
Non convince invece il passaggio sulla contestazione di Lama alla Sapienza nel lontano 17 febbraio 1977. Qui l’ex segretario del PD preferisce sorvolare sulle autentiche ragioni di quella disfatta politica. L’avvio verso la cristallizzazione autoreferenziale e borghese aveva intaccato la capacità di dialogo anche del PCI con il mondo reale, bloccato la sua spinta propulsiva e riformatrice – per non dire rivoluzionaria, parola che evoca da sempre fantasmi con cui è difficile rapportarsi. Quel momento segna il punto di non ritorno, quello dopo il quale il PCI si avvia suo malgrado verso la gestione ragionieristica di Natta, la gioiosa macchina da guerra di Occhetto, le bicamerali di scambio, gli scippi al Governo, il sì ma anche no di Veltroni, la convergenza al Centro. Ma non dobbiamo essere ingenerosi con l’autore del film. In fondo è un atto di coraggio far parlare i fatti attraverso i documenti e le interviste, i quali ci dicono che la china verso il rattrappimento borghese, la perdita di leadership morale, l’accordo non trasparente con il dichiarato avversario, la pratica sempre più diffusa della spartizione delle risorse migliori del Paese, quasi fossero bottino di guerra, era ormai stata presa. Certo, la diffidenza verso l’uomo politico che fu segretario del partito a vocazione maggioritaria, il partito la cui nascita di fatto tagliò le gambe al secondo governo Prodi, resta. Questa diffidenza verso l’uomo politico produce una strana suggestione, quando si mescola alla curiosità verso l’uomo regista. Ma sono tempi strani, i nostri, sempre in bilico tra la performance nei panni di personaggi attentamente studiati e l’anelito di verità che non afferriamo mai.
Ancora, non convince il fatto che la smemoratezza storica venga esposta come simulacro, come se fosse un male dei tempi. Viene da chiedere direttamente all’autore: tu dov’eri, cosa hai fatto per evitare che questa memoria si perdesse mentre si stava perdendo? Credi di poter recuperare qualcosa oggi con questo tributo? E questo tributo, poi, che cosa è in realtà, al fondo delle cose? Si può essere testimoni di un’epoca che si è contribuito a plasmare chiamandosi allo stesso tempo fuori? È legittimo? È credibile? Perché l’esercizio della memoria, caro Walter, in primo luogo è testimonianza vissuta delle proprie idee, dei propri valori.
Com’era facile attendersi, il film si chiude con qualche altra stucchevolezza retorica, stavolta di carattere marinaro, cui fa parzialmente da antidoto una bella frase di Natalia Ginzburg messa lì, in bianco su campo nero. Peccato per la pulsione incoercibile di Walter verso l’iconografia pop. Se non altro, potrebbe invogliare alla visione un pubblico di giovani e giovanissimi. Sebbene ignari della propria storia più recente – ma meglio non indagare anche sulla conoscenza di quella più remota – i nostri figli e nipoti hanno l’occasione di raccogliere una domanda che potrebbe proiettarli con un po’ di consapevolezza nel loro presente più difficile.
bravo! belle recensione,lucida ma anche appassionata.
mi hai fatto venire la voglia di andarlo a vedere nonostante l’avversione per il personaggio (Veltroni naturalmente). forse avrei ricordato anche la battaglia (persa, ma fondamentale proprio per il coraggio con cui è stata condotta) per la scala mobile, e contro Craxi e il liberismo (da noi poi sciaguratamente proseguito dal berlusconismo e ora, con i dovuti distinguo,dal renzismo) rinascente.