Dopo mesi di tribolazioni e di sotterranea censura, finalmente Il sol dell’avvenire, film documentario sulle origini delle Brigate rosse a Reggio Emilia, presentato tra le polemiche all’ultima edizione del Festival Internazionale di Locarno e con successo all'ultima Viennale, arriva nelle sale cinematografiche, da venerdì 28 novembre al Cinema Lumière di Bologna e da venerdì 5 dicembre alla Casa del Cinema di Venezia in presenza di Gianfranco Pannone e Giovanni Fasanella e al Cinecittà di Firenze, per poi essere ospitato in altre città nelle prossime settimane.
Giovedì 23 ottobre Il sol dell’avvenire, film ideato, scritto e realizzato da Giovanni Fasanella e Gianfranco Pannone per la regia di Gianfranco Pannone, veniva proiettato a Roma al Nuovo cinema Aquila nell’ambito di un minifestival di 25 documentari, iniziativa collaterale, ma menzionata nel catalogo del Festival del cinema di Roma. Il giorno dopo, venerdì 24 ottobre, la direzione del Festival e Mario Sesti, responsabile della sezione Extra “disconoscevano film e proiezione”. (cfr. articolo di Daniele Lupi) Quello stesso venerdì sera Gianfranco Pannone era a Vienna per presentare il suo film alla Viennale 08. Incaricata di moderare il dibattito dopo il film sentivo una leggera apprensione. A volte la distanza geografica mette le cose nella giusta prospettiva e ristabilisce un sano distacco critico: le due proiezioni viennesi del film sono state un vero successo. Davanti ad una platea stracolma il dibattito si è protratto, entrambe le volte, per un’ora intera. Il regista è stato letteralmente bombardato di domande da parte di un pubblico interessato, curioso, pronto allo scambio e al dialogo, senza pregiudizi e prese di posizione a priori.
Gianfranco Pannone è un uomo pieno di entusiasmo e di passione per il suo lavoro, osserva ed analizza le cose con grande finezza, ama discutere e condividere i propri pensieri e punti di vista con i suoi interlocutori. Ho colto l’occasione per approfondire e continuare il dialogo iniziato in sala col pubblico: disponibile e generoso il regista ha dedicato molto del suo tempo alla nostra lunga conversazione viennese.
Hai una lunga carriera di documentarista alle tue spalle. Potresti parlarci del tuo lavoro prima de Il sol dell’avvenire?
È da diciotto anni ormai che faccio documentari di “creazione”, cioé documentari con uno sguardo d’autore ben caratterizzato. In Italia non c’è una grande tradizione del documentario; io ho costruito il mio percorso facendo molta pratica, ma avendo anche il privilegio di confrontarmi con l’ambiente francese, dove la cultura del documentario è molto più forte. Alcuni dei miei lavori sono infatti co-prodotti con Les films d’ici o con canali televisivi come Arte o Planète. Ho studiato al Centro Sperimentale e all’epoca non avevo l’ambizione di fare documentari. Quando sono uscito, però, mi sono avventurato in un progetto di documentario grazie anche all’aiuto di Virgilio Tosi, uno dei veterani del documentario italiano, che insegnava al CSC. Così nel ‘91 ho realizzato Piccola America – Gente del Nord al Sud di Roma, girando nelle bonifiche pontine, una terra di cui Mussolini negli anni trenta aveva un po’ fatto il suo fiore all’occhiello e dove emigrarono migliaia di contadini dal Nord Italia. Questo primo lavoro ha involontariamente generato un trittico, La trilogia dell’America. Il secondo film di questa serie è Lettere dall’America del ’95, un documentario sulla Napoli del dopoguerra raccontata attraverso la figura di un mio zio d’America, che arrivò a Napoli dopo la guerra, portando dollari e che divenne poi un paladino dell’anticomunismo durante le elezioni del ‘48. Nel ‘98 ho realizzato, il terzo capitolo, L’America a Roma, un film che racconta la Roma degli anni ’60, del boom economico, attraverso gli stuntmen degli spaghetti western minori. È un lungometraggio che feci con la Rai e che completa la mia trilogia in cui il fascismo, il dopoguerra e gli anni ’60 vengono raccontati attraverso testimoni che rappresentano la storia con la “s” minuscola.
Ti sei quindi sempre occupato di soggetti storici e politici.
Per me la storia è molto importante, ma diciamo che il mio sguardo iniziale è storico ed antropologico al tempo stesso. Mi interessa fare i conti con la storia dell’Italia perché penso che l’Italia, l’Italia recente in particolare, non abbia mai fatto i conti con la propria storia. Nel 2001 ho realizzato Latina/Littoria, un film giudicato molto curioso, che suscitò anche molte polemiche. Io sono napoletano, ma sono cresciuto a Latina e la conosco molto bene: è una città che ha ancora delle forti tradizioni fasciste ed è in bilico fra la vecchia e le nuova destra. Latina/Littoria segue le vicende di un sindaco fascista che vuole difendere il Piano regolatore originario con l’aiuto di un architetto – urbanista di sinistra e che ha contro proprio i suoi alleati di coalizione, cioè i dirigenti locali di Forza Italia. Se Latina/Littoria è uno sguardo sui vecchi e nuovi fascisti, Il sol dell’avvenire è, invece, uno sguardo sulla sinistra italiana vista attraverso un altro microcosmo simbolico, quello di Reggio Emilia.
Come è nato il progetto di Il sol dell’avvenire?
Il sol dell’avvenire nasce innanzitutto da un sodalizio con Giovani Fasanella che è un giornalista molto particolare, peraltro uno degli “emarginati” di Panorama. Per anni Giovanni ed io abbiamo provato a realizzare dei film tratti dai suoi libri senza riuscirci. Un progetto era tratto da Segreto di stato, una lunga intervista a Giovanni Pellegrino, l’ex presidente della Commissione stragi, che arrivò a scoprire cose molto interessanti sul caso Moro; un altro progetto si riferiva a Guerra civile, un libro sulla guerra strisciante che dal dopoguerra per decenni ha condizionato le sorti dell’Italia. Finalmente siamo arrivati a Che cosa sono le Br (2004), una lunga intervista ad Alberto Franceschini, sulle origini e lo sviluppo di quello che è stato uno tra i più longevi gruppi terroristici d’Europa. Anche se il libro affronta tutta la parabola della Brigate Rosse, io ho proposto a Giovanni di fare un film su un microcosmo, quello di Reggio Emilia, da cui uscirono una dozzina di brigatisti il cui leader era proprio Fra
nceschini. A me piace molto lavorare sui microcosmi: penso che la provincia italiana molto spesso possa mostrare vizi e virtù del nostro paese in maniera esemplare. Ho scelto Reggio Emilia perché rappresenta veramente la punta di diamante della sinistra italiana. Ma Reggio Emilia è una città che porta dentro di sé anche una “hybris” di cui nessuno vuole parlare: da questa città provengono, appunto, diversi brigatisti rossi, alcuni dei quali legati, per amicizia o parentela, ai partigiani comunisti più intransigenti, che ritenevano tradito lo spirito della Resistenza. E siamo, dunque, andati ad indagare in questa città, coinvolgendo non solo Alberto Franceschini, che insieme a Curcio era stato il fondatore delle Br, ma anche altri ex-brigatisti, pure loro emiliani, come Tonino Paroli o Roberto Ognibene.
Come sei arrivato a scegliere i vari testimoni del tuo film?
Ci sono arrivato facendo un lavoro capillare sul territorio. A partire dall’autunno del 2006 ho cominciato a frequentare abbastanza spesso Reggio Emilia, sia da solo che in compagnia di Fasanella e sono entrato in contatto con varie persone. In un primo tempo avevo uno schema legato alla figura di Franceschini: il film sarebbe dovuto essere un viaggio di Franceschini a Reggio Emilia. In seguito ho, invece, capito che bisognava far parlare più persone e quindi ho cominciato ad avvicinare sia degli ex-brigatisti rossi che persone che non lo erano. Ho trovato anche molte reticenze, molti problemi. Per esempio nel film si parla di Gallinari, ma lui non è voluto comparire, come non sono voluti comparire molti ex ragazzi de L’appartamento, che brigatisti non lo diventarono.
Potresti parlarmi delle difficoltà che hai incontrato nella fase di preparazione?
Per esempio noi fino al giorno prima delle riprese non sapevamo se avremmo girato o meno al ristorante che è poi il luogo dove fu presa la decisione di passare alla lotta armata. Quel ristorante appartiene alla cugina di Tonino Paroli, ma Tonino fino al giorno prima delle riprese non sapeva se partecipare o meno. Molte di queste persone erano incerte; così se Franceschini non aveva problemi, Ognibene l’ho dovuto convincere a Bologna, in un lungo pomeriggio in cui abbiamo parlato per tre ore su una panchina della storica Piazza Verdi. È stata una conversazione stimolante e alla fine, accettando di partecipare, penso che Ognibene abbia creduto nella mia buona fede.
Con Paroli, invece, ci sono stati almeno dieci incontri. Era incerto, perché aveva paura di essere strumentalizzato; forse era anche influenzato da Gallinari, che ha una posizione molto isolazionista e radicale oltre al fatto di non essersi mai pentito completamente di quello che ha fatto. Alla fine, poi, è stato proprio Paroli a presentarmi Paolo Rozzi, l’esponente del partito democratico, che è diventato una figura fondamentale nel film.
Nel film si sente anche “ l’assenza” di coloro che non hanno voluto parlare, che non hanno voluto partecipare. Nell’estratto di una telefonata qualcuno dice di non ricordare più nulla…
Non è un caso se abbiamo inserito quella telefonata all’interno del film: quella telefonata è rappresentativa di un sentimento che coinvolge una parte della sinistra storica italiana. A Reggio Emilia, e non solo a Reggio Emilia, per molti le BR sono ancora un tabù.
Dunque era un personaggio di sinistra quello che dice di non ricordare?
Sì, si tratta di un personaggio di sinistra che, pur non essendo uno di quei comunisti ortodossi ad oltranza, è rimasto ancorato al suo passato. Alcuni di questi ex-comunisti o sindacalisti della CGIL, sostengono che enfatizzare troppo queste figure significa non dare un senso alla storia reale della città e io li capisco perché di fatto un film dà pur sempre un’idea parziale di qualcosa. Le Brigate Rosse sono una tragedia, questa cosa non va dimenticata. Lo dico specialmente per gli equivoci che si sono creati dopo l’intervento del ministro Bondi sul film, che ha fatto pensare che Il sol dell’avvenire fosse filobrigatista. Gli ex-brigatisti rossi, però, fanno parte di quell’album di famiglia della sinistra di cui ha sempre parlato Rossana Rossanda, nel senso che all’interno della sinistra c’è stata una componente estremamente radicale e rivoluzionaria che ha fatto della violenza un qualcosa di necessario per arrivare ad un risultato concreto. E con questa triste storia bisogna farci i conti, perché appartiene alla sinistra tutta, compreso il partito comunista italiano.
Il comune denominatore dei cinque “personaggi” che prendono parte al pranzo é l’esperienza dell’ “Appartamento”.
L’Appartamento non è stato in sé un’esperienza negativa, ma un’esperienza complessa, che ha visto riunirsi comunisti, socialisti, anarchici e cani sciolti. È vero che si parlava di rivoluzione in maniera anche ingenua e sfrontata, cosa che non accadeva solo a Reggio, ma in qualche modo ne L’Appartamento c’era uno spirito sessantottino che aveva in sé anche del positivo se lo collochiamo nella sua epoca. Questo è importante, perché altrimenti L’appartamento lo si vede solo in un’ottica negativa: dentro c’era di tutto, violenti e non violenti; c’erano pure i cattolici, come viene peraltro raccontato nel film.
Nel film intervisti infatti anche un “cattolico” e lo inquadri con un crocifisso dietro le spalle…
Corrado Corghi è una figura molto importante. Esponente dell'area cattolica del dissenso, nel 1968 uscì dalla Democrazia Cristiana per la questione del Vietnam, diventando di lì a un anno, quasi inconsapevolmente, un punto di riferimento per alcuni ragazzi del L'Appartamento. Fu proprio Corghi, poi, che fece liberare il giudice Sossi, proprio perché conosceva Franceschini. E provò a far liberare anche Moro, ma Franceschini, che era il suo contatto, all’epoca non era più in grado di influenzare le Brigate rosse di Moretti, perché era in carcere.
Nel tuo film introduci degli elementi eterogenei come gli intermezzi musicali degli Offlaga Disco Pax, qual è la loro funzione?
Per me questi intermezzi rappresentano il “coro” del film; un coro che è anche generazionale, un po’ più giovane, ma vicino alla mia generazione, quella dei quarantenni, che ha solo sfiorato gli anni settanta e non ne è stata protagonista. Il coro mi interessava come contrappunto, rappresenta un mio punto di vista: la capacità di guardare a quegli anni non con il dito puntato, ma con uno sguardo affettuoso ed ironico al tempo stesso. Era importante cantare, oserei dire con affettuosa distanza, una certa efficienza, una certa capacità organizzativa o certe mitologie che secondo me fanno parte del mondo della sinistra.
Per illustrare
le canzoni degli Offlaga Disco Pax ti servi spesso di archivi di quell’epoca che sembrano invecchiati a proposito, perché?
Molti pensano che gli archivi siano stati elaborati e invece sono semplicemente distrutti. Lavoro sugli archivi da anni, nei miei film precedenti ho fatto spesso ricorso al repertorio filmico e fotografico. Ne Il sol dell’avvenire non ho voluto utilizzarne di più, in primo luogo perché mi sembrava interessante lavorare soprattutto sul presente, in secondo luogo perché ho incontrato dei problemi: molti archivi locali, infatti, non ci sono stati messi a disposizione. Gli archivi che ho inserito nel film provengono dall’Istituto della Resistenza di Reggio Emilia. Lì è stato aperto, apposta per me, un vecchio armadio che non si apriva da anni; c’erano una decina di vecchi Super 8 di documentari del Partito comunista nazionale e regionale. Ho utilizzato tre di questi documentari; li ho trovati molto rovinati, ma mi piaceva che fossero così perché in qualche modo rappresentano una sorta di archeologia della storia della sinistra italiana del ‘900. Lasciare quegli archivi del Novecento come se fossero dei filmati molto più antichi, mi sembrava una cosa molto interessante, soprattutto in relazione alle musiche degli Offlaga Disco Pax, che cantano questo mondo con una distanza ironica e un umorismo necessario, possibile solo per chi non ha vissuto in prima persona gli eventi di quegli anni.
Nelle didascalie con cui vengono presentati gli ex-brigatisti dai varie informazioni: parli del numero di anni di pena ma non menzioni mai i capi di imputazione, perché?
Insieme a Fasanella a questo ci ho pensato a lungo; sarebbe banale dirti, anche se è forse una parte di verità, che non c’era spazio per inserirli. In realtà penso che un film non possa essere esaustivo. Il film ha l’ambizione di porre degli interrogativi lanciando delle provocazioni. La mia (e quella di Fasanella) provocazione consiste nel mettere davanti alla macchina da presa persone che nel fondo ben rappresentano la “banalità del male”. Accanto a questo aspetto, c’è anche un’altra componente: io sono di cultura cattolica e penso che una persona non debba essere condannata per tutta la vita, perché esiste il perdono. L’importante è che chi ha sbagliato faccia i conti con la propria storia, soprattutto per rispetto verso le vittime del terrorismo. I tre ex brigatisti del film, Franceschini, Paroli e Ognibene, hanno responsabilità e storie diverse. Io non so se queste tre persone siano state in grado di elaborare il loro lutto, probabilmente almeno uno di loro non ci è riuscito. Ho lasciato stare i capi d’imputazione anche perché per me quei tre ex brigatisti più che degli individui con nome e cognome sono dei simboli, in quanto militanti delle Brigate Rosse. Quello che mi interessa mostrare é che queste persone hanno fatto una scelta terribile nella loro vita, una scelta che io condanno, ma hanno anche pagato col carcere e forse vale anche la pena ascoltarle, perché ci possono ancora dire delle verità, fosse pure attraverso il loro apparire banale, quasi adolescenziale.
Anche nelle foto alla fine del film, quelle delle vittime delle BR, hai scelto di non mettere dei nomi. A parte Moro, io non ho riconosciuto nessuna delle vittime ma queste vittime hanno dei nomi… Cosa ha motivato questa tua scelta?
A me e Fasanella interessa in primo luogo mostrare che la conseguenza di quello che i “personaggi” del film hanno detto e fatto, sono quei cadaveri per terra, immersi nel sangue. Vedendo quelle foto, deve arrivare quanto sia grave ciò che hanno commesso, cioè l’avere ucciso, in nome di una supremazia ideologica intollerabile, chiunque non andasse loro bene. Come ho detto prima, a me interessa di più l’aspetto simbolico che l’informazione esaustiva. Il nostro documentario ha piuttosto l’ambizione di far capire che l’Italia non fa i conti con la propria storia e ancora oggi paga per questo.
Pure il titolo del film può fare nascere la polemica: sole ed avvenire sono senza dubbio delle associazioni positive…
Io lavoro spesso sull’ambiguità: così è stato anche per il mio film Latina Littoria. Nel corso della mia carriera sono stato accusato tanto di “filofascismo” quanto di “filobrigatismo”. Se noi vogliamo schematizzare alla Michel Moore, lo possiamo anche fare, ma secondo me capiremo molto poco della realtà. La storia italiana è una storia estremamente complessa: se viene letta in bianco e nero è difficile capirla. Il titolo ha per me anche un significato ironico. E chiaro che letto così alla lettera dici : “Ah! E’ un film che ci parla delle magnifiche sorti progressive della sinistra”, tant’è che l’accusa di filobrigatismo é arrivata appunto perché molti hanno anche interpretato il titolo in questo modo. Ma Il sol dell’avvenire non esiste più, è fallito, probabilmente é fallita anche in parte la sinistra, anche se non oso ancora crederlo ( mi considero “un cristiano senza chiesa e un socialista senza partito”). Insomma, Il sol dell’avvenire è un titolo che utilizziamo ironicamente, anche correndo il rischio di fare apparire il film ottimista.
Un'altra cosa che può fare nascere la polemica è la tua scelta di raccogliere queste persone intorno al tavolo di un’osteria come se si trattasse dell’incontro di una vecchia classe di liceo. Ciò che colpisce nel film è anche l’atmosfera allegra, amichevole e cordiale di questo incontro.
Fino al giorno prima io non sapevo se sarei effettivamente riuscito a realizzare quel pranzo, ma ci tenevo moltissimo e con me anche Fasanella. Volevamo che il pranzo fosse proprio in quel luogo simbolico. Poi entrambi siamo rimasti colpiti dal fatto che loro si siano trincerati dietro una apparente allegria, almeno fino al momento in cui Paroli ha pianto. Quel pianto, in apparenza solo egoistico, perché Paroli piange un terrorista ucciso dai suoi stessi compagni, ha reso evidente tutta la tragedia che c’è dietro. Questo pranzo non è piaciuto a molte persone sia a destra che a sinistra. Secondo me, invece, era necessario per far capire come dietro una certa italianità allegra e spiritosa, si nasconda l’incapacità di fare i conti con la propria storia sia politica che personale. Se fosse stato un film tedesco, queste persone si sarebbero psicanalizzate l’una con l’altra o scannate; invece loro, pur avendo storie completamente diverse, ridono e scherzano fino al momento del pianto.
Come hai lavorato alla scena del ristorante, ne avevate discusso prima, c’era una specie di copione o hai lasciato che le cose evolvessero per conto loro?
In qualche modo abbiamo lavorato anche prima, nel senso che tutti i protagonisti del film sapevano che cosa ci interessava che raccontassero: volevamo che parlassero dell’esperienza de L’Appartamento e cosa quell’esperienza avesse comportato. Detto ciò, io non sapevo cosa sarebbe successo e francamente sono andato a girare quel pranzo con l’idea che fosse molto più drammatico di quello che poi è diventato, anche se in fondo lo è. Siamo rimasti sorpresi dal fatto che tutti quanti fossero troppo accondiscendenti e
fintamente allegri. Io e Giovanni li abbiamo anche stuzzicati un po’ con delle domande provocatorie, però non ha funzionato come pensavamo. La grande contraddizione è che queste persone ammettono delle gravi responsabilità, ma non sembrano in grado di andare fino in fondo alle cose e ci girano in qualche modo intorno. Ci stanno nascondendo qualcosa? Probabilmente la risposta è più banale di quanto non possa sembrare: molte persone hanno semplicemente paura che crolli il loro castello di carta. Per quanto riguarda Rozzi e Viappiani, i due non brigatisti, la cosa che colpisce è, invece, che anche loro non sembrano reagire, perché forse avrebbero dovuto criticare un po’ di più i loro ex-compagni di viaggio e questo, in fin dei conti, la dice lunga sul fatto che all’epoca le BR godessero di un sostegno molto più forte nel mondo intellettuale e politico di quanto non si pensi. Alla fine chi attacca di più gli ex-brigatisti è proprio il “personaggio” che è assente dal pranzo, cioè Adelmo Cervi. Adelmo, figlio di uno dei fratelli Cervi, eroi della Resistenza, è un testimone importante. Non l’ho fatto partecipare al pranzo perché, all’epoca dei fatti, fu mandato dal PCI a studiare in Russia. Cervi rappresenta quel mondo contiguo e un po’ ambiguo che per un attimo è stato abbastanza vicino alle BR. Al suo ritorno Cervi, come lui stesso dichiara nel film, ha frequentato Gallinari ed altre persone che erano in clandestinità. Oggi Adelmo è tra tutti i testimoni de Il sol dell’avvenire, quello che prende le distanze in modo più netto e dice: “Le BR hanno sbagliato perché credevano di essere un’avanguardia, ma se la politica con i suoi ideali non arriva dal basso, non porta ad alcun risultato”. Lui difende, malgrado tutti i suoi errori, il PCI e lo fa molto più dei suoi amici Rozzi e Viappiani. Il semplice Cervi porta in sé una saggezza contadina che lo ha portato a non spingersi oltre, verso la lotta armata, e a fare delle scelte democratiche.
Quanto hai tagliato? Ci sono state durante il pranzo delle tensioni fra i cinque che hai deciso di non mostrare?
No, nel pranzo no, non abbiamo nascosto nulla. Inevitabilmente in un documentario tagli molto; tieni conto che in media per un documentario di 80’ giro quaranta-cinquanta ore di materiale. L’aspetto più terribile è rinunciare tagliando, ma a volte bisogna farlo anche in modo brusco. Questo è uno dei motivi per cui Paroli ha reagito meno bene al film, perché si é visto troppe cose tagliate, specie nel suo studio di pittore. E’ anche vero, però, che Paroli nel piangere solo i “suoi” morti, dopo aver peraltro detto che lui e i brigatisti non sono terroristi, ha un ruolo più forte degli altri testimoni: il suo è il pianto di un lutto non elaborato, il pianto di quella generazione di terroristi che non ha fatto i conti con la storia, è un pianto disperato e impotente. In fondo Paroli, pur con i suoi limiti e non condividendo il suo dire che non è stato un terrorista, è il più vero di tutti. Ha sofferto molto durante i suoi 16 anni di carcere, anche perché ha perso un figlio, ed è la persona che ha più umanità, oltre che ad essere anche il più ingenuo e naïf. Franceschini, al contrario, malgrado il suo rapporto con il brigatismo rosso sia più maturo, ha detto delle grandi verità, ma è qualcuno che ama molto rappresentarsi, troppo.
La polemica intorno al film?
I problemi che sta attraversando adesso il film in Italia (esce nelle sale ma solo all’interno del circuito indipendente) sono in gran parte conseguenti alla polemica estiva voluta dal ministro Bondi in prossimità del Festival di Locarno. In seguito alla sua “condanna” (il film offende la memoria delle vittime del terrorismo, ha detto), abbiamo perso l’Istituto Luce, cioè la distribuzione pubblica, che si è ritirata senza neanche avvisarci, se non in ritardo. Adesso ci segue una piccola distribuzione, l’Iguana Film, che ha avuto difficoltà a trovare delle sale, forse perché anche gli esercenti godono dei finanziamenti del Ministero dei Beni Culturali. Rai Tre, infine, ha di fatto congelato l’acquisto del film. La verità è che in Italia non c’è coraggio, prima che scatti la censura, scatta addirittura l’autocensura. Visto, dunque, che il Ministro Bondi ne ha parlato male, molta gente prende automaticamente le distanze.
In quali sale verrà mostrato Il sol dell’avvenire?
Per ora è a Bologna, Firenze e Venezia, a gennaio a Reggio Emilia e Latina, poi, spero, a Roma, Torino e Milano e Padova, forse anche a Napoli. Il 19 Febbraio, invece, uscirà il DVD con un libro che sarà una sorta di diario tragicomico mio e di Fasanella su questi due anni di traversie realizzando Il Sol dell’avvenire, non serioso, divertito, ma anche abbastanza duro, considerando tutta l’ipocrisia che abbiamo avuto intorno.
C’è un “sole” ed un “avvenire” per il documentario italiano?
Non saprei, in Italia in questo momento si fanno tantissimi documentari e i giovani scoprono la realtà in tutte le sue sfaccettature. Il fatto che si possa realizzare un documentario anche a basso prezzo, incoraggia non poco i giovani e poi secondo me c’è una grande attenzione verso la realtà, perché il nostro mondo dell’informazione e della televisione è fin troppo manipolato, per cui i giovani sentono il bisogno di andare a scoprire delle realtà per conto proprio. Però mancano i budget, in Italia non esiste un’industria cinematografica vera e propria figuriamoci se esiste un’industria del cinema documentario. D’altra parte avere a che fare con i ministeri o con le film commission significa troppo stesso autocensurarsi. Se penso al caso del mio film, che ha avuto un finanziamento dello Stato e poi ha dovuto affrontare tutti questi problemi, allora mi domando se un domani si potrà mai fare un film sui transessuali o sui problemi dell’immigrazione o sull’eutanasia… Certi argomenti tabù non possono più essere trattati, salvo sopravvivere nel circuito indipendente. Per il resto penso che l’Italia possa proporre un suo proprio linguaggio documentario caratterizzato da una voglia di raccontare che si differenzi sia dall’eccesso di rigorismo dei francesi, rinchiusi nel loro concetto d’autore, che dall’approccio troppo legato all’informazione e all’intrattenimento, del documentario di scuola anglosassone. La situazione è difficile: se accetti i soldi pubblici devi poi fare delle rinunce, se, invece, un film lo fai a basso costo, rischi la fame. Bisognerebbe creare le condizioni per uno sviluppo del mercato documentario, anche perché, a livello internazionale, quei riferimenti importanti in materia di produzione che sono stati la Francia o il mondo anglosassone, oggi non ci sono più.
Sono comunque piacevolmente sorpreso dall’energia che c’è intorno al documentario e non solo; sono pessimista, invece, per il fatto che una generazione di cineasti possa vivere sul “nulla”. I documentaristi più giovani riusciranno a fare quadrato, irrompendo sul nostro mercato zoppo? Si può parlare di cinema nuovo? E sarà possibile cambiare qualcosa anche all’interno dell’ancora gracile documentario
italiano? Non sono in grado di dire se la generazione dei trentenni possa fare tutto questo; noi quarantenni non ci siamo riusciti o almeno chi è riuscito a far qualcosa lo ha fatto da solo. Alcuni di noi hanno intrapreso una propria strada, magari ottenendo anche riconoscimenti, ma devo dire che per i più la faccenda è stata molto complicata. Forse con un po’ di ottimismo della volontà…
Quali sono i tuoi progetti futuri?
Ho appena terminato un documentario sulla complessa figura di Gianni Agnelli e sto lavorando a un altro lavoro sulla comunità ebraica romana, ma non nascondo che mi piacerebbe prendermi un periodo di riflessione, perché ogni tanto bisogna anche sapersi fermare.
Cosa ti auguri per il “tuo” avvenire?
Mi auguro che i miei documentari possano essere visti da più persone ed essere accolti come un’opera unica. Tutto il mio lavoro è animato da un interesse ed un’esplorazione costante della storia italiana recente e in questo senso spero che possa essere riconosciuto come un tutt’uno. Sono abbastanza ottimista, anche perché ci ho dedicato tanta di quella passione al mio lavoro, rifiutando l’idea del documentario come nicchia più o meno aristocratica e pensando, invece, che il documentario possa essere popolare. Mi piacerebbe anche fare della fiction; quattro anni fa ho realizzato un lungometraggio che è ancora inedito, Io che amo solo te, ma, sebbene il film sia stato emarginato, vorrei farne degli altri, sempre occupandomi della storia vista attraverso lo sguardo della gente comune. Spero di riuscire a fare ancora questo, lo confesso, sperando che intorno trovi un po’ più di attenzione, fuori e dentro l’Italia.
(Viennale08)