Quando ci si trova davanti alla scena di una madre incattivita, violenta sia fisicamente che verbalmente, che picchia in maniera selvaggia la figlia adolescente perchè ha bruciato la cena oppure ha osato rispondere all’ennesimo insulto gratuito, diventa complicato mantenere una distanza rispetto al contenuto forte, quasi insostenibile, di ciò a cui si sta assistendo per concentrarsi sulle forme della rappresentazione. Potrebbe passare in secondo piano rispetto all’urgenza di raccontare quel momento di abuso domestico. Forse perché è radicato in noi l’immaginario della madre che mantiene, pur in una situazione di violenza familiare, un atteggiamento di omertà, di passività, lasciando alla figura maschile, al padre, il ruolo della brutalità fisica.
Nel suo libro, Push, la scrittrice afro-americana Sapphire ha invece rovesciato questa prospettiva, perche il padre abusatore c’è, ma rimane come una sorta di contagiosa forza distruttrice, un buco nero che fa sprofondare in un’oscurità morale e psicologica il personaggio della madre, cancellandone ogni ombra di umanità, compassione, dignità e caricandola di famelica, ingorda voglia di rivalsa attraverso la sopraffazione e il sopruso. Bisogna ammettere che le scene tra Mary, il nome di questa madre che paradossalmente rimanda a quello della grande madre archetipica della tradizione cattolica, e Precious, la figlia già stuprata nel corpo e nel cuore, portano a un limite di sopportazione emotiva, di saturazione dello spazio, di tolleranza verso la comprensione di un orrore così grande, per cui istintivamente si vorrebbe scagliare la poltrona del cinema contro lo schermo. Ma ciò che evita la negazione rispetto alla rappresentazione di quell’orrore e che costringe, pur impotenti e annichiliti, ad ascoltare e a guardare, è la regia dell’afro-americano Lee Daniels. Lo sguardo di un cineasta diventa, infatti, fondamentale per evitare di scadere in un trucido dramma familiare, costruito in maniera rigida e schematica, dove il successivo riscatto di Precious, grazie alla frequentazione di una scuola alternativa, poteva tranquillamente ridursi ai minimi termini di una vendetta contro la madre/mostro, perdendo echi più profondi sul riscatto esistenziale, culturale e sociale della protagonista.
Daniels – di cui purtroppo in Italia non conosciamo la precedente produzione – dimostra di possedere quello sguardo e le immagini con cui ha scelto di raccontare la storia di Precious. Immagini cariche del buio che avvolge tutta la vicenda, ma anche attraversate da squarci di luce nei quali Precious proietta i suoi sogni di adolescente. Sogni semplici, elementari, in cui viene esasperata la necessità di essere accolta, riconosciuta, amata come una pop star di MTV, l’unico immaginario su cui ha potuto plasmare la materia dei suoi sogni, come testimonia l’onnipresenza della televisione nell’appartamento/lager, mai come in questo caso linea di confine, rispetto alla realtà esterna per la narcotizzata Mary, e dispensatrice di realtà illusorie e consolatorie per la disperata Precious. E quando la figlia abbandonerà quel lurido tugurio con in braccio il secondo figlio dell’incesto paterno, Mary le lancerà contro proprio l’oggetto/televisione, che si distruggerà completamente, spezzando il cerchio di bugie, abusi e segregazione.La dialettica tra interno infernale ed esterno pieno di possibilità non si piega comunque, nella rappresentazione che ne dà Daniels, in un semplice, netto contrasto tra buio e luce.
La scuola Each One Teach One, dove Precious incontra la professoressa mentore della sua rinascita, è un luogo aperto alla realtà, dov’è possibile incontrare altre Precious scappate da altri appartamenti/lager, che si portano dietro tutto il carico di diffidenza, paura e rabbia e pure rivendicano il loro spudorato, caparbio diritto a essere amate e ascoltate. La scuola come luogo fisico di accoglienza, le mura scolastiche come utero sostitutivo di quello materno, la nascita e lo sviluppo della propria identità di persona che si afferma raccontandosi, attraverso il linguaggio orale e scritto, dove l’elaborazione e l’immaginazione non sono più strumenti di fuga o di negazione, ma acquistano il valore di una più profonda conoscenza di se stessi.
Non c’è speranza o destino, non ci sono buoni o cattivi. C’è un faticoso, concreto, quotidiano affrontare la realtà in tutto il suo peso specifico che Precious esprime nelle sue forme abbondanti e nel suo incedere pesante e inesorabile, un’immagine inconciliabile con qualsiasi compromesso, con qualsiasi facile consolazione. “Io sono troppo per lei”, dice nel finale all’assistente sociale d’ufficio che le vuole costruire il futuro standard riservato alle ragazze come Precious, vale a dire fare la domestica in qualche casa di bianchi, dare in adozione i due figli (di cui uno con la sindrome di Down) nati dagli stupri del padre, passare dall’inferno domestico al pietismo assistenzialista del mondo civilizzato che vuole nascondere la spazzatura sotto il tappeto. Ma Precious è, appunto, troppo di tutto: troppo grassa, troppo brutalizzata, nata e cresciuta in una situazione troppo sbagliata e comunque, proprio per questo, troppo intenzionata a diventare non l’impossibile immagine di una fotomodella bionda, il sogno passivo in cui non a caso Daniels la faceva rispecchiare a inizio film, ma una giovane donna afro-americana che afferma per la prima volta il diritto a una scelta di vita.
Il regista avvolge la sua protagonista nei chiaroscuri e nei morbidi bianchi di una seconda venuta al mondo, riuscendo a far emergere il nucleo dell’emozione e il senso di nuda verità davanti all’esaltante scoperta della vita nella sua multiforme complessità. Precious diventa un personaggio, un film, un modo di raccontare che acquista una centralità, esce dall’anonimato della vittima e dal ricatto del vittimismo, resta nella memoria come l’immagine di un sorriso riconquistato contro un pianto soffocato e negato nella culla, ricordandoci quanto, a volte, il grembo materno possa essere ostile e minaccioso.