Uno dei sentimenti più comuni che suscita l’approccio alla visione dell’adattamento cinematografico di un’opera letteraria, magari particolarmente amata e vissuta nella lettura, è senza dubbio la paura, il timore di veder profanato un territorio intimo, riservato, sul quale l’immaginazione, partendo dalla forza evocativa della parola, aveva edificato palazzi, grattacieli dalle architetture barocche, dalle simmetrie nascoste, intere costruzioni di desiderio e pensiero. Il pregiudizio verso i cinematografari eretici, che hanno osato imprigionare una tale vastità di sensazioni e riflessioni dentro il tempo e lo spazio di un’inquadratura, dovrebbe essere invece ripulito, cancellato, lasciare il posto a un’apertuta mentale che consenta l’esistenza, tra le tante, anche dell’interpretazione del regista e dello sceneggiatore, artefici del passaggio da un linguaggio all’altro.

Ian McEwan, l’acclamato romanziere inglese che si è imposto come uno dei più acuti e incisivi osservatori della psiche e del cuore degli uomini nel ventesimo secolo, ha visto spesso frequentare la sua rarefatta, imperscrutabile scrittura da parte della macchina da presa di cineasti eterogenei per sensibilità, tecnica, gusto dell’immagine. Per quanto riguarda gli adattamenti dei romanzi, sono stati prevalentemente i suoi connazionali a curarne le regie, cominciando dalla  sensualità e dalla glaciale precisione di Andrew Birkin per Il giardino di cemento, continuando con il formalismo un pò sterile di John Schelesinger per Lettera a Berlino, fino ai tentativi di maggiore fedeltà allo spirito del testo azzardati (ma irrisolti) da Roger Mitchell per L’amore fatale e l’ultimo Joe Wright per Espiazione. Ci sono state anche incursioni di cineasti non britannici, quindi portatori di un punto di vista esterno rispetto alla prospettiva così profondamente inglese di McEwan, come gli americani Paul Scharader, sicuramente in sintonia con certe ossessioni contenute in Cortesie per gli ospiti, e Joseph Ruben, assolutamente a disagio nel tradurre in un moralismo di stampo disneyano l’ambiguità e la sottile perversione de L’innocenza del diavolo.

Se dovessimo mettere sulla bilancia i pro e i contro del processo di conversione della scrittura di McEwan in cinema, rimarebbe indiscutibilmente un margine di insoddisfazione, di inappagamento, l’impressione di trovarsi ogni volta davanti a qualcosa di incompiuto, come se l’immagine non riuscisse a esprimere, a sondare la densità della dimensione psicologica e  introspettiva di personaggi e situazioni. E il problema, per mantenere un atteggiamento critico e analitico corretto che non sia compromesso dal piacere del lettore tradito dal cinema, sta proprio nel fatto che, escludendo un paio di titoli (Birkin e Scharader),  il linguaggio cinematografico non ha mai azzardato, non ha mai aggredito realmente la parola di McEwan, uccidendola magari per farla rinascere sotto forma di immagine con lo stesso mistero, la stessa forza distruttiva e annichilente di ineluttabilità.

Il condizionamento del confronto con il romanzo non è imputabile in questo senso a un atteggiamento preventivo del lettore-spettatore quanto alla natura stessa della tras-posizione, bloccata e sospesa in una zona franca, neutrale, nella duplice impossibilità dell’autonomia dall’opera letteraria e dell’unicità riconoscibile dell’opera filmica. Il malato più sofferente della schizofrenia scritturacinema sembra essere proprio l’acclamato Espiazione, ispirato a uno dei lavori più recenti di McEwan (il romanzo è del 2001) e che nasce dalla collaborazione tra un regista giovane eppure di sicuro mestiere come Joe Wright e l’acclamato scrittore e sceneggiatore Christopher Hampton. Garanzie per ottenere il risultato sperato: un prodotto di qualità che renda giustizia, alla letteratura come al cinema, a chi ha letto il libro come a chi vedrà il film.

D’altro canto Wright aveva già dimostrato di possedere la mano giusta in un felice, energico adattamento di Orgoglio e pregiudizio che Jane Austen, se avesse potuto indicare il modo migliore per trasferire le vicende sentimentali di Elizabeth Bennet e sorelle sul grande schermo, avrebbe probabilmente suggerito come modello. Convinto da questa riuscita, Wright deve forse aver pensato di poter centrare l’obiettivo confrontandosi con un universo letterario assai differente da quello della Austen, portatrice di un vivo piacere del racconto, di una legerezza e infallibilità nella descrizione dell’ambiente sociale, di un’ironia pungente, laddove McEwan è attraversato da digressioni, contrazioni, coesistenza di orribile e tenero, straordinario e ordinario, a un ritmo che segue i sussulti e le percezioni deviate di personaggi malati, contorti, spezzati.

Reale e immmaginario sono i due piani sui quali si muove pericolosamente il personoggio di Briony, la ragazzina che esprime la sua consapevolezza di essere una scrittrice scegliendo di vedere in un rapporto amoroso clandestino tra la sorella maggiore e il figlio della donna di servizio della loro ricca famiglia un abuso sessuale nella Londra classista degli anni ’30.  Questa consapevolezza nel romanzo non lascia scampo,la mescolanza tra colpa e innocenza.è tagliante e crudele come una lama dal doppio filo. Ecco, nel film manca quasi totalmente la focalizzazione interna della “malattia” di Briony, l’incapacità di scindere ciò che vede da ciò che immagina, non c’è commistione dei piani narrativi ma si offre un’unica linea narrativa che predilige e segue le vicende dei due amanti impossibili, divisi dalle bugie e dall’intolleranza prima e dagli orrori della guerra poi.

L’idea di espiazione, di consapevolezza della colpa a cui il tempo interiore dilaniato di Briony condurrà fino alla desolata conclusione, risulta asservita a una volontà di magniloquenza, di estremizzazione delle passioni e dei sentimenti, che avvicinano la regia di Wright al manierismo e al formalismo dei melodrammi di Anthony Minghella, lontani anni luce dalla scabra potenza introspettiva e dai quesiti filosofici e morali di McEwan.

Purtroppo ciò che emerge dalla superficie patinata del lavoro compiuto da Wright e Hampton è una sensazione di pesantezza e solennità inconciliabile con i concetti di rigore e intensità che appartengono e contraddistinguono tutta la produzione di McEwan e il fatto che Wright abbia dichiarato di aver usato delle calze davanti all’obiettivo della mdp per rendere un effetto maggiormente flou e vicino alle atmosfere degli anni Trenta, stabilisce una distanza ancora superiore tra la volontà di una dimensione romantica e la crudezza di un autore che in uno stesso periodo può passare dal descrivere una passeggiata nel parco alle fantasie masturbatorie di un adolescente.

Chi sembra essere riuscito nell’impresa di coniugare l’esigenza dell’immagine con la fedeltà allo spirito del testo e non solo alla lettera è senza dubbio il Birkin de Il giardino di cemento, capace di fare propria la materia del racconto, più scevra di un’articolata struttura drammaturgica rispetto a Espiazione, e modellata su una qualità sensoriale della visione e del suono, attraverso la ricostruzione di un microcosmo che nulla toglie all’immaginazione del lettore e dà al film la reale singolarità di cui ha il diritto.

Semplicemente Birkin ha eliminato alla radice il confronto con la parola, estraendo l’essenza dei fatti e filmandoli in un continuo equilibrio tra realismo e distorsione allucinatoria. Il Jack all’ingresso nella pubertà che, assieme alle sorelle e al fratello, una volta “eliminati” i genitori (il padre da un infarto, la madre dal cancro), si illude di potere ricreare uno schema di famiglia auotosufficiente nell’abbandonata periferia londinese in distruzione, applica sulla realtà lo stesso procedimento di appropriazione e re-invenzione della piccola Briony davanti al primo amplesso della sorella. E l’essenzialità a cui giunge Andrew Brirkin mette di fronte agli occhi, nell’immagine nuda e silenziosa, ciò che in McEwan è parola e pensiero. Quello che non può essere rinchiusio in nessun effetto flou o in nessun tramonto di cartone.

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