Finzione allo stato puro. Un divertito ripescaggio nel cinema di fine anni Sessanta e inizio Settanta, mettendo da parte il lato colto di quella produzione a vantaggio di una totale immersione negli horror indipendenti, con lume tutelare John Carpenter, senza per questo dimenticare Roger Corman e Lucio Fulci. Tornano sullo schermo con Planet terror gli Zombies, anzi no, meglio dire i Sickos. I primi sono infatti dei morti viventi, mentre i secondi sono esseri un tempo umani che colti da una infezione (prodotta da un agente chimico: il DC2), vedono il loro corpo ricoprirsi di terribili piaghe purulente, il loro sguardo diventa assente e sono preda di pericolosi istinti aggressivi. L’orda barbarica, malefica e infetta prende di mira l’ospedale di una piccola cittadina texana, chiunque entri in contatto con lo sciroppo rosso che fuoriesce dai loro corpi resta contaminato, anche perché i Sickos sono affamati di sangue.
Contro questa presenza mostruosa danno battaglia un gruppo di resistenti. Insieme alla dottoressa Dakota Block (Merry Shelton), che ha nel reggicalze una serie di siringhe da utilizzare all’occorrenza come armi, c’è Cherri (Rose McGovan), ballerina di locali notturni che, persa una gamba in uno scontro automobilistico con gli esseri mutanti, l’ha sostituita con una mitragliatrice, e con lei Wray (Freddy Rodriguez), un ragazzo dall’apparenza innocente ma dal passato meno semplice di quanto sembra. Del gruppo fanno parte anche lo sceriffo locale con i suoi aiutanti, due gemelle babysitter, il proprietario di un ristorante (alla ricerca della ricetta perfetta, pensiero che lo perseguita sino al momento della morte), e quello di un nightclub. Insomma, la trama e in parte i personaggi, calcano i luoghi comuni cinematografici relativi al genere. Quel che conta non è tanto l’originalità della storia, quanto l’accumulo di situazioni inverosimili ed estreme che provocano sorriso, ribrezzo e complice ironia nello spettatore.
Negli Stati Uniti il film è dato insieme a Death Proof – A prova di morte di Tarantino, ed entrambi portano il titolo di Grindhouse, nome che fa riferimento alla proiezione – ai tempi in cui non c’erano le multisala e gli homevideo e i dvd erano una chimera – di due pellicole, una di seguito all’altra, infarcite nel mezzo da trailer altamente grafici (in Planet all’inizio c’è la presentazione di Machete, un action movie). Il pubblico, stando ai racconti di Tarantino, era composto di vagabondi che trovavano rifugio nei locali, o anche di ricercati che passavano lì la notte. Erano per lo più prodotti indipendenti e stampati in non molte copie che viaggiavano da una città all’altra, con la pubblicità organizzata a livello locale. Dice Rodriguez: “Vista la scarsità di copie, era normale che la pellicola si rovinasse e si graffiasse e per questo motivo i distributori erano soliti tagliare le parti più danneggiate che quindi sparivano letteralmente dalla circolazione”. Dunque si trattava di materiale fuori dal circuito ufficiale, privato però di qualsiasi aura intellettuale, e in quanto tale aveva una sua natura “eversiva”, di opposizione non cosciente alle categorie formali consolidate – intendo quelle proposte dal sistema culturale e commerciale imperante al tempo – in cui il procedere secondo una logica razionale era garanzia di verità. Al contrario, non solo Tarantino ci ha abituato ad una temporalità del racconto non lineare, ma nei contenuti dei Grindhouse hanno un ruolo decisivo i combattimenti violenti conditi di una macabra ironia, la presenza di mostri e psicopatici, il ricorso al basso corporeo nella sua sgradevolezza e nel suo aspetto erotico.
Rodriguez e il suo fedele amico Quentin si tengono lontano da affrontare argomenti che possano lasciar scivolare la loro opera su questioni intellettualmente impegnative. Avvalorano in questo modo la tesi che li vuole ludici e nostalgici riproduttori di una forma del passato. In parte è così, non si può negare. Basta guardare la precisione mimetica con cui Planet terror riproduce tagli improbabili, salti sonori, graffi sulla pellicola che spesso finisce per incendiarsi durante la proiezione. È però anche vero che la materia di cui sono fatti i loro film mantiene una potenza altra, rispetto all’abituale produzione, proprio perché irriverente verso le categorie consolidate di pensiero.
L’orizzonte entro cui si muovono è completamente di fiction, rimanda ad un mondo che si è fatto “favola”, la cui possibile declinazione non è solo la citazione divertita o l’uso di un disimpegno stralunato. Infatti malgrado tentino di farci intendere che sia solo quello il loro scopo – un vuoto giocare con le sagome disegnate dalle luci sullo schermo – emerge da sotto le scintille di corse d’auto, dai fuochi delle esplosioni e da sexy balli, un qualcosa che afferra amaro e silenzioso lo stomaco di chi guarda, pur continuando ad accarezzarlo col divertimento. In Death Proof, per esempio, il tragico pessimismo del genio di Pulp Fiction – se uno sospende per un attimo l’adesione disinteressata allo spettacolo – appare evidente: i protagonisti della vicenda sono mossi di continuo da eros e thanatos, in un ciclo continuo, privo di vicoli d’uscita, in cui l’unico esercizio di vita possibile è azione e reazione. Rodriguez invece, pur dandoci l’idea di un’ integrale sovrapposizione fra la materia decomposta e l’essere umano, tale da provocare la distruzione persino di un bambino che muore con un colpo di pistola, consente ai superstiti della terribili epidemia di approdare in un illusorio paradiso tropicale. E poi in fondo ai titoli di testa il bambino torna in vita con un sorriso stampato fra le labbra.
…potevi pure dirlo con meno parole quanto hai scritto, non pensi?
forse potevo utilizzare meno parole. però così il discorso mi pare completo rispetto a quanto avevo in testa. poi sì, in effetti poteva anche entrare in un sms, per quanto mi riguarda mi piacerebbe realizzare delle recensioni in sms.