“Dopo aver fatto le riprese sono andato alla Kodak di Losanna partendo alle cinque di mattina. Ho consegnato il materiale per lo sviluppo e me lo hanno ridato alle due. Sono tornato a casa a Torino, ho proiettato la pellicola con un proiettore super8 a velocità variabile, 9 fotogrammi o 18 fotogrammi, su di un muro bianco ed ho ripreso le immagini con una videocamera. La pellicola in super8 era a colori, l'avrei poi decolorata. La regolazione della velocità di proiezione mi consentiva l'effetto di sfarfallamento perchè a 9 fotogrammi l'immagine pulsa, va molto lentamente, e, giocando sulla differenza di scansione di fotogrammi di proiezione e di ripresa (la telecamera riprendeva a 25 fotogrammi), si creava un effetto veramente affascinante che neanche le immagini di Don Pollarolo avevano! Ti dava l'idea che questa cosa stesse per fermarsi e invece andava avanti. Ho montato tutto in video, decolorando, e poi ho ripreso con una 16 mm il monitor su cui ho fatto passare le immagini. […] nessuno mi ha insegnato questo metodo. Ci sono arrivato per istinto e dimestichezza con le cose".
"Il procedimento adottato per l'80% del film si chiama salto della sbianca. Il risultato che si ottiene è un pò un paradosso: le fonti di luce sono sovraesposte e i neri, al contrario, sono profondissimi. Se si sovraespone i neri diventano grigi, se si sottoespone i bianchi non "sparano": questo procedimento ti aiuta invece a lavorare sul contrasto. É rischioso farlo in fase di ripresa perchè devi girare con un'esposizione calcolata. Spesso si fa sul positivo: si gira normalmente e quando si stampa si fanno tutti i giochi cromatici che si vuole. Noi invece lo abbiamo fatto sul negativo. Si chiama salto della sbianca perché la pellicola durante lo sviluppo salta un bagno chimico, quello che pulisce i nitrati di argento che non sono stati impressionati. È una mancanza di pulizia”
Sono racconti di Daniele Gaglianone, raccolti da Dario Zonta all’epoca della sua monografia sull’autore torinese, pubblicata da Falsopiano nel 2004.
Sono aneddoti emblematici di un modo di intendere e fare il cinema: fisico, materico, manipolatorio, che della manipolazione si fregia, si adorna e si vanta. Sono confessioni, rivelazioni emblematiche di un approccio all’immagine cinematografica che piega il linguaggio alle esigenze di chi lo usa, e non il contrario come ti insegnano nelle accademie. Svelare al posto di occultare; finzione si, ma finto mai. Oltre i corpi degli attori, oltre i vestiti e le scenografie, oltre il set e il prefilmico, c’è lo sviluppo, la stampa e il montaggio ovvero i luoghi dell’alterabilità del film, il momento artigiano e creativo della sua creazione. Si può e si deve usare il digitale, la cinecamera RED (se l’ha usata Von Trier in Antichrist….) ma si deve aver capito qualcosa sulla luce se si vuole ancora usare il linguaggio del cinema.
Gaglianone ha una formazione analogica, viene dagli archivi, dall’ANCR di Gobetti in particolare, ha studiato sui banchi del montaggio e non su quelli delle scuole di regia e di sceneggiatura. Training on the job. Gaglianone, regista teatrale con il suo gruppo Il buio fuori, conosce perfettamente la natura e l’essenza della macchina da presa. Lavora con una squadra di collaboratori storici, prende gli stessi attori che hanno lavorato con lui negli spettacoli su Malcom Lowry, gli stessi già interpreti in Nemmeno il destino: uno, Fabrizio Nicastro, era il giovane Ferdi mentre gli altri due comparivano in ruoli minori. Prende l’appartamento e la palazzina in cui tutti e tre vivono nella realtà e lascia esibire Pietro e Francesco davanti la cinecamera così come si potrebbero esibire davanti le telecamere di Zelig quando lavorano come duo comico. E poi il solito, enorme lavoro su luce, suono e montaggio. Ci sono delle marche, dei segni, che sono ormai riconoscibili e associabili a questo autore: gli schermi neri, i suoni che anticipano e posticipano l’immagine, dei piccoli prologhi che dicono molto sul senso del film.
Pietro, il nuovo film scritto e diretto da Daniele Gaglianone, è nato così. Degnissimo rappresentante del cinema italiano che ci piace al Festival del Cinema di Locarno, Pietro è l’ennesimo figlio maschio di un autore interessato alla difficoltà di essere padri, figli e fratelli. Solo tra i lungometraggi si contano gli anziani ex-partigiani de I nostri anni, i tre adolescenti di periferia di Nemmeno il destino, e ora un trentenne economicamente ed affettivamente precario. Passato, presente e futuro: che fosse volutamente una trilogia? Pietro non è un ritardato: è un uomo traumatizzato che non ha nulla da dare a un mondo esibizionista capace di chiederci solo manovalanza a basso costo ed evasione. Non è aggressivo, non è cinico, non è intraprendente, non veste H&M, non abita Ikea. Pietro abita in una sorta di nave fantasma. Quando esce in strada vaga, e ci fa vagare, in una Torino nuova rispetto a quella di Nemmeno il destino, una Torino-centro passata dagli Agnelli agli Elkann, dalla marjuana alla cocaina, dalle modelle ai trans; una Torino votata alla sicurezza, alla pulizia, all’ordine, al divertimento, zeppa di macchine da volantinare, ma vuota di conforti. Pietro è vicino all’aria, all’acqua, alla luce. Porta la croce per dodici brevissime stazioni, tanti sono i quadri in cui è ordinato un film che sembra durare un attimo, quasi non si riuscisse a fermalo con lo sguardo.
Confesso che ogni volta che ho visto un suo film ho avuto sempre la medesima sensazione: quella di uscire dalla sala avendo visto troppo poco rispetto a quello che c’era da vedere. Sono storie che appaiono esili, veloci, da prima lettura, hanno la leggerezza di chi arriva subito al punto. E invece sono lavori complessi, carichi di angosce, da rivedere almeno una seconda volta. Gaglianone non è un regista della crudeltà; è un regista della realtà, un regista del lavoro che non c’è, dei diritti del lavoro che non esistono più. Pietro non è I pugni in tasca. La famiglia, celebrata cellula della società che si vorrebbe patriarcale e immutabile, semplicemente non c’è. Pietro è il caos della deregolamentazione liberista, della vittoria dei furbi sui semplici; un caos che genera impotenza e implosioni.
Il cinema italiano degli anni Sessanta aveva cercato di dare al suo pubblico gli strumenti per capire la natura di certe nevrosi tipiche di quella società. Possiamo dire lo stesso del cinema italiano di questa prima decade del terzo millennio?
Ma il film ti è piaciuto o no? Volessimo capì che so’ misteri!
Si, mi è piaciuto.