Sceneggiato da Sandro Petraglia, Ivan Cotroneo e Claudio Piersanti per la regia di Riccardo Milani e distribuito dalla O1Distribution, Piano, solo è stato congegnato come un’opera intensa destinata al successo di pubblico e critica. E’ la storia vera di Luca Flores, musicista jazz suicidatosi alla soglia dei quarant’anni, che Walter Veltroni ha raccontato nel libro Il disco del mondo edito da Rizzoli.
La vicenda del musicista “maledetto” subisce una virata decisiva quando, ancora bambino, perde la madre in un incidente stradale: Luca si trova con la sua famiglia in Africa quando, durante uno spostamento in auto verso la città, la macchina guidata dalla madre sbanda. L’evento lo segnerà per sempre e gli alimenterà un senso di colpa ossessivo che lo porterà fino alla morte.
In sostanza è questa la tesi che Milani sposa appieno a scapito di una ricostruzione maggiormente stratificata di una personalità complessa e geniale. Così la vita di Luca Flores che si diploma al conservatorio, che si dedica al jazz, che si innamora di Cinzia, che suona con Chet Baker e Massimo Urbani si intreccia ripetutamente (e quasi si inceppa come un disco incantato) con le immagini di un’infanzia in cui risiede l’origine del senso di colpa relativo a quella tragica perdita. Non a caso, l’ultimo ricordo che Luca ha della madre viene affidato dal regista allo specchietto retrovisore della macchina in cui gli occhi di lei incontrano per l’ultima volta lo sguardo del figlio prima dell’incidente mortale. L’immagine di quello sguardo, perdendo i connotati di realtà, si trasforma in una rappresentazione psichica che imprigionerà per sempre il protagonista nella convinzione dolorosa di una responsabilità tutta immaginativa. Questa interpretazione, senz’altro valida, ha come limite quello di appiattire una narrazione affidata alla ridondanza di un “solo piano” di lettura. Luca Flores, ossessionato dal senso di colpa per la morte della madre, si sentirà in seguito responsabile anche della scomparsa del musicista Chet Baker; nessuno spazio viene lasciato ad altre possibili sfumature di un animo sensibile e dolorante e, nonostante l’impalpabilità che al personaggio regala la straordinaria interpretazione di Kim Rossi Stuart, non emergono dal film la profondità o la complessità di altri lati oscuri. Il protagonista viene presentato come un uomo malinconico e introverso che utilizza la musica come unico mezzo per comunicare con il mondo, che se ne serve per esprimere un’emotività che, più che impacciata, è quasi involuta. E tuttavia nel film la musica funge più da sfondo che da supporto alla sviluppo drammatico della vicenda; i momenti in cui la ritroviamo non svelano l’ombra tormentata del protagonista né fanno da contrappunto ad una drammaticità in evoluzione.
Anche se l’opera si conferma come un buon prodotto – dalla sceneggiatura, agli interpreti (Jasmine Trinca, Michele Placido, Corso Salani, Paola Cortellesi, Sandra Ceccarelli, Mariella Valentini), all’uso delle luci (chiare nelle parti dedicate all’Africa cupe e scure nelle altre) – la sincera commozione che la storia suscita non viene accompagnata da un’equivalente ricerca visiva o formale, e l’impianto abbastanza classico rende l’opera un’operazione riuscita che immaginiamo non diverrà, come Bird di Eastwood per esempio, un punto di riferimento per un nuovo modello di cine-biografia.
Da quanto leggo, questo è l’ennesimo film psicanalitico che esce in Italia. Ultimamente sono moltissimi infatti i film in cui un protagonista adulto fa un viaggio a ritroso che porta a galla un trauma infantile: penso a La bestia nel cuore, La sconosciuta, al libro che aveva scritto Veltroni, a Viaggio segreto di Andò, a Fratelli di sangue… etc. e tanti altri che ora non mi vengono in mente (ma il veneziano Nessuna qualità agli eroi sembra essere su questa lunghezza d’onda…). Necessità rigenerativa o ripiegamento nel passato? L’unica cosa certa è che non sembra essere solo un’esigenza individuale…
credo che questo film sia prima di tutto il racconto di un personaggio di valore e complessità. In un certo senso ogni vicenda umana è psicanalisi e da questo punto di vista lo è, ovviamente, anche il film di Milani. Ma non esagerei nello spingere il film verso posizioni che non gli appartengono. E’ un film lineare e di superficie, ma non in senso negativo. E’ una biografia pericolosa risolta con mestiere e rispetto. Un film poggiato su tanti altri ma sufficiente in personlità. Ottimo per conoscere Luca Flores e capace di emzionare i più sensibili. Grande Rossi Stuart. Non vediamo l’ora di rivederlo dietro la macchina da presa. Da innamorarsene.