Avvertenza al lettore: la seguente recensione contiene informazioni sullo sviluppo della trama del film.
di Abramo Teodoro Balsamo / Dopo la prima mezz’ora di una interminabile carrellata di abiti sartoriali di squisita fattura, sorrisi di circostanza, mezze voci, nevrosi attentamente controllate e nostalgie della mamma, nel buio ovattato della sala viene da chiedersi perché, a distanza di più di due anni dall’uscita di Manchester By the Sea, il cinema americano non abbia più prodotto una storia capace di provocare un tale struggimento.
Phantom Thread (Il filo nascosto) di Paul Thomas Anderson è esattamente come la tipologia di oggetti che, a ben vedere, nel loro insieme sono il vero protagonista principale del film: un abito elegantissimo accuratamente confezionato. Solo l’abito però, nient’altro. Dentro non c’è nessuno, nessun corpo palpitante.
D’accordo, qualche scossetta ogni tanto, qualcosa di simile a un rigonfiamento pulsatile sotto la superficie morbida del tessuto. Ma poi?
Solo per riepilogare brevemente: un grande artista della moda, londinese, ossessionato dalla madre, annoiato dalle donne e noioso a sua volta, s’innamora non di una donna bensì delle misure perfette di una cameriera scovata per puro caso in un ristorante nella campagna inglese; lei pensa che sia scoccata la scintilla dell’amore eterno; lui invece ha delle idee assai più prosaiche, ne fa la sua musa e modella preferita, ogni tanto ci fa del sesso (ma dubitiamo di quale passione sia realmente capace un uomo come questo), per il resto pensa solo al lavoro; lei comincia a volere di più ma lui tiene duro; per vincere le sue resistenze, la nostra eroina lo addomestica con dosi ripetute di fughi velenosi; lui si arrende (e grazie! – verrebbe da dire).
Ora, se non fosse che la Storia ha già consegnato alle cronache una vicenda simile in forma di tragedia – forse ricorderete i famosi funghetti avvelenati di Agrippina, il povero Claudio imperatore e il figliastro Nerone – una trama del genere, messa giù in modo così asettico, farebbe venire in mente o un thriller psicologico o una parodia. Qui invece si procede lungo un percorso differente, attraverso un territorio che – forse? – vorrebbe essere la prima cosa ma che finisce per non diventare nemmeno la seconda.
Pur con tutta la maestria degli interpreti – e bisogna dare atto che Vicky Krieps è mirabile nel personaggio di Alma, la cameriera nobilitata – la storia procede piatta, i personaggi sono quasi privi di profondità, i chiaroscuri della loro psicologia sono appena sbozzati. Quella che ci scorre davanti è una pura e semplice fenomenologia del comportamento umano, non una vera indagine su di esso. E sì che ce ne sarebbe, di materiale su cui lavorare. Ma no, tutto accade macchinalmente, tutto è così perché così è stato deciso e non facciamoci troppe domande. Non c’è mai un vero sussulto, mai uno strapiombo in cui cadere e dal quale eventualmente risorgere, neanche quando, a rigore, avrebbe dovuto esserci il climax del film, il momento in cui lei avvelena Reynolds la prima volta.
Qualche sospetto almeno? Suvvia, nessun crimine è davvero perfetto. In effetti sì, sembra che Cyril – la sorella di Reynolds – riesca ad annusare una traccia nell’aria. E allora che diamine! Una domanda perentoria, un’accusa diretta, qualcosa che ci trasmetta un’emozione! Mettiamoli in crisi questi personaggi. Mettiamoli in discussione. Cavolo, vediamo di che pasta sono fatti veramente.
E invece niente. Di nuovo la storia torna a scorrere placida e tranquilla, a parte qualche forzato cambiamento subito pentito e alcune prevedibili sfuriate di lui e bizzarrie di lei. Le solite stanchezze del tran-tran quotidiano, insomma.
E cosa dire poi di alcuni cliché gettati lì con superficialità, si potrebbe dire con banalità, quasi delle citazioni obbligate di quel che evidentemente si pensa debba essere una sorta di predeterminato sistema di interferenze relazionali all’interno di una società, specie se post Vittoriana: la minaccia dell’adulterio, il giudizio di classe. Elementi che appaiono e subito scompaiono dall’orizzonte degli eventi senza mai produrre alcun tipo di effetto concreto.
Qualcosa tuttavia accade.
Quando stavamo per gettare la spugna, proprio lì lì sul finale, ecco che una sorpresa c’è. Mr. Woodcock, il monolitico, austero, imperturbabile, inossidabile Reynold Woodcock, deliberatamente consuma una bella portata di funghi velenosi – di nuovo il tipo di quelli usati la prima volta! – che la cara mogliettina gli ha preparato proprio davanti a suoi occhi e per di più conditi con una dose già di per sé mortale di burro. Sadomasochismo al quadrato, giacché lui il burro lo detesta. Questo è stupefacente. La repentinità con cui assistiamo a un mutamento profondo nella relazione tra i personaggi ci coglie impreparati.
Dunque lui ha capito il gioco e ha deciso di giocarlo? Perbacco. Non aveva implorato la sorella, solo pochi metri di pellicola prima, di aiutarlo a sbarazzarsi della moglie?
Assistiamo quindi, nello spazio di qualche fotogramma, al completo capovolgimento dei ruoli in questo gioco di potere in cui Alma, la paesana ma affatto provincialotta Alma – come ci sembra evidente dal suo primo apparire sulla scena – sottomette il dominus et deus, il quale a sua volta sembra non aspettasse altro. All’austera mamma finalmente può sostituire la perversa moglie.
Tutto bene allora. A quanto pare, un intrigante congegno psicologico è stato appena fatto funzionare davanti a noi. Ma come ci siamo arrivati? È stato caricato a dovere e a tempo debito? È stato coerente con lo sviluppo della trama fin qui? È scattato nel momento giusto?
Da quel che sembra è scattato solo quando la lunghezza mortifera del film giunge ormai al suo limite estremo. Che delusione.
Quanto all’epilogo, non potevano aversi che due sole possibilità: o la tragedia o la commedia, in questo caso più una farsa, come sottogenere della commedia.
E così, ancora una volta ci viene confezionato un gingillino carino e perfettino, un film tranquillizzante quando invece avrebbe potuto graffiarci ferocemente. Non resta che accontentarsi di qualche brivido collocato con freddo calcolo qua e là.