di Fabrizio Croce/Invito al viaggio è il titolo di un misconosciuto film di Peter Del Monte, uno dei cineasti più misteriosi e originali del cinema italiano, affezionato ad una rappresentazione onirica, sospesa, straniante delle realtà “prescritte “, come direbbe Bergman, in cui i suoi personaggi, spesso donne sull’orlo di una crisi di identità, entrano e da cui escono senza soluzione di continuità, spinti a porsi la domanda, e lo spettatore con loro, su quale sia ontologicamente il senso della realtà, con una risposta che è sempre filosofica, romantica, visionaria, estetica.
Già solo introdurre il labirintico e seducente cinema di Del Monte, per introdurre quello ancora più vertiginoso e fantasmatico di Olivier Assayas, fa correre il rischio di perdersi, di perdere i confini ed entrare in simbiosi con un linguaggio così personale e anomalo rispetto alla convenzione della grammatica e della sintassi in particolare del cinema italiano, spesso appiattito sugli orizzonti di un bidimensionale realismo, da farci dimenticare il motivo per cui in questa sede stiamo parlando di Invito al viaggio e qual è l’intima risonanza che lo lega al quantomai anomalo Personal Shopper di Olivier Assayas: nel film del 1982 di Del Monte c’erano due fratelli gemelli, legati da un rapporto assoluto, esclusivo ed escludente del mondo esterno e delle consuetudini che ne formalizzano le relazioni, in cui anche la sessualità, consumata come la simbiosi dentro il liquido amniotico del grembo materno, presenta una purezza e una sacralità, una ritualità ancestrale al contrario che non genera l’universo ma lo fa ripiegare su se stesso, implodere in un’oscurità che non porta in nessuna direzione o comunque non in una direzione altra, come dimostra, letteralmente e simbolicamente, la trasformazione del fratello di Invito al viaggio che assumerà anche l’immagine della sorella morta dopo averne introiettato l’anima nel segno perduto e maledetto del rock decadente e autodistruttivo.
Personal Shopper comincia, da un certo punto di vista, dove il film di Del Monte finisce e si spinge ancora oltre quella prescritta realtà già attraversata , con un’audacia e una libertà propria del cinema di Assayas, contaminatore proliferante di sguardi e generi tra struggenti, appassionate e vitali autobiografie (Qualcosa nell’aria), vampate di melò raffreddate da lucide analisi esistenziali(Clean-Quando il rock brucia nelle vene) e riflessioni sulla mutazione dell’immaginario del desiderio e le forme delle sue rappresentazioni (il conturbante, erotico, gelido noir cyberpunk Demonlover).
La camminata maschile e femminile inguainata in un paio di jeans di Kristen Stewart lungo il viale che porta nella grande e abbandonata villa situata in maniera indefinita intorno alla campagna di Parigi, annuncia che fratello e sorella sono diventati la stessa cosa, vivono l’uno nel corpo dell’altra e la fisicità androgina dell’ex icona pop adolescenziale di Twilight, in cui si faceva “vampira” per amore e si identificava in una natura già poliforme, notturna e mortifera del desiderio, porta su di sé i tratti dell’indeterminatezza e dell’incompiutezza di Maureen, il nome del personaggio, alla ricerca di un “segno”, di una prova, di un ‘apparizione da parte del fratello gemello stroncato dalle complicazioni per una malformazione cardiaca, per altro identica a quella di cui anche Maureen soffre.
Una dimensione indecifrabile e inafferrabile che il “lavoro” di Personal Shopper , una sorta di consulente che cura le spese nel campo di vestiti e accessori per donne appartenenti all’alta società, svolto con indolenza ma cura da Maureen, rappresenta in viaggi asettici e anonimi tra gli atelier di alta moda di Londra e Parigi, i negozi soffusamente illuminati di Cartier, le case dalle luci blu elettrico, fredde e vuote, in cui transitano fantasmi di corpi glamour, sofisticati, eleganti, da copertina o, più precisamente, da immagine riprodotta sullo schermo di un computer, digitando un nome su google, fucina immediata e automatica per la riproduzione a uso e consumo dell’insaziabile e compulsiva voglia di guardare e alimentare il desiderio, senza il rischio di perdersi realmente dentro la sua vertigine.
Ma Assayas, dicevamo, va più avanti, attraversa e penetra la virtualità dell’immagine su supporto ( computer, tablet, i-pod, i-phone) e fa del suo stesso film un “supporto” digitale e manipolabile, lo strumento attraverso cui permette a Maureen di entrare in contatto non solo con il “fantasma” del fratello, ma anche con una realtà ultraterrena popolata da spiriti ed ectoplasmi, servendosi spudoratamente di effetti kitsch mutuati dai B Movie horror rivisitati da Peter Jackson, e alzando la posta della stratificazione di linguaggi e convenzioni narrative , incluso il fake di un film tv realizzato sulle sedute spiritiche tenute da Victor Hugo durante il suo esilio sull’isola di Guernsey.
Nella frammentazione e nelle deviazioni dei punti di vista e del racconto, per cui viene innestata un’ulteriore sotto trama thriller sempre collegata alla ghost story principale, rimane, come fulcro portante e fuoco intimo, lo sguardo ed il corpo di Kristen/Maureen nel momento in cui, sollecitata dalla chat via whattsup con un misterioso interlocutore ( il fratello morto dall’aldilà? il possibile autore di un delitto passionale? il suo inconscio? chi lo sa e in fondo chi se ne importa…) gioca con le pulsioni della paura e del desiderio, “trasgredisce” il suo ruolo di Personal Shopper ( identità anonima, virtuale, vincolata a rituali di potere e subordinazione) ed entra negli abiti e negli accessori acquistati per la donna che è il suo sfuggente e totemico capo e che le aveva vietato anche solo di provarli.
Per Maureen personaggio e Kristen attrice quella “prova costume” diventa la cerimonia segreta, l’azione rituale, lo svezzamento al capezzolo e al prepuzio del l’Immagine-Desiderio, in cui maschile e femminile, digitale e analogico, superficie e profondità si confondono o si accoppiano promiscuamente e generano un’identità nuova, irriducibile alle categorie del comprensibile o del non comprensibile.
E il cinema di Olivier Assayas, per interposta Kristen Stewart, si cimenta con questo limite e questa sfida : dare forma al Desiderio non solo in quanto fantasma e proiezione, ma come Corpo includente tutti i segni, le ferite e le pulsioni di vita e di morte del Cinema e degli individui/personaggi che contiene e, a volte, cerca di vampirizzare.
si, molto di più di ciò che questo non proprio riuscito esperimento di Assayas in realtà forse offre, a parte la venerazione condivisibile per l’efebica stewart!