La terza rassegna di realtà virtuale del PerSo (Perugia Social Film Festival), curata da Valentina Noya, vicepresidente dell’Associazione Museo Nazionale del Cinema, stavolta sposta i confini fisici e percettivi attivati dalla VR sul dibattito ecologico e femminista, mettendo al centro la capacità del dispositivo della realtà aumentata di provocare una esperienza insieme empatica e conoscitiva, relazionale ed espansa. E’ un merito del PerSo (e dell’attenta direzione artistica di Luca Ferretti e Giovanni Piperno) aver aperto le porte della propria casa -abitata dal documentario sociale e d’inchiesta, dagli audiovisivi legati alle ricerche etnografiche sul campo e dal cinema del reale, fino ad arrivare agli ibridi scaturiti da un uso ri-creativo del found footage, tra post-memory e private-footage– alle nuove tecnologie che formano immagini sempre più cangianti, multiformi e perturbanti associate a una dimensione esperenziale e percettiva che del decentramento e dell’abbandono dello sguardo sovrano tenta di farne anche un’etica –con rigore baziniano per cui ogni tecnica rimanda anche a una metafisica. Un ambiente immersivo in cui la prossimità con persone, cose, paesaggi e suoni si fa non più luogo solamente, e puramente, visivo, ma anche spazio effettivamente aptico, ovverosia che va al di là sia dello spazio perimetrato e abitato dalla vista (il cinema moderno) che “del senso del tatto, anche se lo contiene: secondo la sua radice greca significa “venire a contatto” e presuppone che nel contatto ci sia una relazione di interattività” (Giuliana Bruno). Perdersi è meraviglioso, direbbe Lynch. O detto altrimenti, l’autopercezione in uno spazio diventa vertiginosa e straniante in una accezione degna del perturbante freudiano più sfrenato.

L’esperienza di realtà aumentata produce, allora, in chi ne fa esperienza, uno spostamento percettivo, epistemologico, (de)soggettivizzante e anche affettivo, qui al PerSo. E ciò accade non solo per la specificità del dispositivo a prestarsi a una declinazione immersiva della visione, ma anche per la scelta registica di attuare un posizionamento relazionale, empatico e ri-creativo con gli ambienti e le atmosfere incontrate, indagate e quindi spazializzate in VR.

In Affiorare/Surfacing, di Rossella Schillaci, viaggio esperenziale nella vita quotidiana di madri e bambine e bambini che vivono in carcere, tramite un ambiente espanso a tutto tondo chi guarda si ritrova, da una parte, nel mezzo di un spazio panottico da cui non riesce a fuggire, né a scendere, e dove la paranoia di un controllo totale esercitato in un presente assoluto (quale è anche quello del carcere, in cui ad essere rubato è proprio il tempo di chi è in esso detenuto), viene “aumentata” dal non riuscire a trovare uno straccio di “specchio” dove almeno riconoscersi dentro una immagine di sé, seppure capovolta. Dall’altra, l’esperienza immersiva e rizomatica della VR ci consente di fare-legame con le corse irriducibili dei ragazzini nel cortile fatto d’erba, cemento e sorveglianza, e con la vitalità del vincolo e dei gesti che li lega alle madri; con l’attenzione a uno spazio che si vorrebbe più grande e con la creatività che, espressa tramite i disegni dei minori che tracciano il volto delle madri e il dispositivo virtuale che li colloca in modalità mobile sulla soglia dei veri volti, finisce per farlo diventare più grande “davvero” –la VR rende esistenti i tanti possibili effusi dalla figura (anche concettuale) della “virtualità”.

In Sweet end of the world, di Stefano Conca Bonizzoni, film saggio, esperienza immersiva spaesante, e quindi anche dislocante e riposizionante (o almeno è un invito a cambiare il passo), non c’è una linearità nella narrazione né un rapporto trasparente tra soggetto e oggetto, non c’è una ragione aurea o strumentale né uno statuto riflessivo dello sguardo a orientare lo spazio e il tempo: il futuro non è più davanti a noi ma è già qui, in una sincronicità tra passato e appunto futuro compressi in una esperienza di presentificazione del tempo. L’esperienza della VR non è trasparente ma opaca, ci si può percepire ma non ci si può riconoscere. Quello che si può riconoscere, piuttosto, è la forma di una esperienza nuova. Non puntata su qualcosa ma posizionata, carne e affetti (incluse le vertigini!), “con” qualcosa o con qualcuna e qualcuno con cui si tenta di entrare in relazione a partire dal “venire in contatto” in uno spazio espanso (possibilità) e in un tempo urgente e perturbante (il presente ma stratificato). C’è in ballo la fine del mondo, l’apocalisse culturale e la crisi della presenza davanti a un pianeta che brucia, si scioglie e non trova più spazi ancora possibili -ovvero con cui praticare una dimensione politica e quindi immaginare ancora dei futuri. Come c’è anche, in primo piano, prospettiva inedita e anch’essa perturbante, il verso dell’animale da bestiame dal quale riaffiora un rimosso inaudito, il soffio del vento che non suona più come una armonia, seppure manipolata, ma come una esposizione incontrollata a un fuori furioso, la coltre di ghiaccio in bilico sull’avidità di un sole umano cocente, in cui ogni secondo è una approssimazione verso la fine. L’esperienza è qualitativa perché quando ci si toglie il visore, dopo aver attraversato i processi attivati dai miriadi di sensori che hanno tradotto i movimenti umani nel mondo virtuale, il rapporto (aumentato) con la realtà è diventato meno sicuro -e quello con la pace più flagrante.

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