La stagione cinematografica in corso, anche se probabilmente è presto per fare delle analisi visto che ci troviamo ancora nel pieno del suo svolgimento, ci ha già portato due figure femminili che lasciano un segno indelebile, livido, intenso sulla pelle dei personaggi che incontrano e dei contesti sociali, degli spazi concreti che popolano con la loro carica di irrequietudine e desiderio.
Sono personaggi che vengono da mondi culturali e cinematografici diametralmente opposti e che pure sono spinti nel loro movimento dalla necessità di colmare un vuoto, di sentirsi parte di un qualcosa che non risponde a nessuna delle parole che la società e la cultura hanno trovato per delimitare, confinare lo spazio delle relazioni tra gli esseri umani: Famiglia, Coppia, Sorella, Fratello, Padre, Madre. Il punto geografico e culturale di partenza, dicevamo, è quasi speculare nel suo contrasto: quando incontriamo l’Olivia di Io e te, l’ultimo viaggio nell’epica dei sentimenti minimalisti di Bernardo Bertolucci-se bene abbiamo inteso le parole del maestro parmense quando ha parlato di “kammerspiel kolossal”, kollosal da camera – ci troviamo di fronte a una cascata di capelli biondo platino avvolti da un cappotto di pelliccia che ricorda il pelo di una scimmia, ad aumentare il contrasto con una femminilità che rimanda cinematograficamente alla Marlene Dietrich di Venere bionda. Poi, quando la sentiamo parlare, lo spiccato accento catanese contraddice quei colori e quel fascino decadente e ci riporta all’aspra, viscerale origine siciliana, un contrasto tra distacco e calore, tra capacità di immaginarsi altro da sè e legame profondo con la propria natura.
Cambiamo prospettiva e dimensione quando invece vediamo comparire per la prima volta Alina, sui binari della stazione dei treni di un paese della Romania, in Oltre le colline di Cristian Mungiu, che in 4 mesi, 3 settimane e 2 giorni aveva già offerto l’immagine desolante di una realtà schiacciata dal peso di una dittatura soffocante e attraversata da impulsi di libertà e consapevolezza. Alina ha quasi 25 anni, ma nel corpo acerbo e nel volto indurito porta ancora i segni di un’adolescenza offesa e ferita dagli abusi e dalla miseria dell’orfanotrofio, dunque nessuna seduzione cinefila, ma al contrario l’incarnazione delle conseguenze della Storia sulla vita delle persone.
Eppure molte sono le cose che accumunano Olivia e Alina, in particolare se leggiamo le loro vicende sotto la lente d’ingrandimento del simbolico e dell’universale, come peraltro, andando oltre la collocazione storica e sociale, si offrono per essere lette dalla mdp di Bertolucci e Mungiu.
Entrambe, infatti, vanno a penetrare all’interno di uno spazio chiuso e confinato che tiene fuori la realtà ed il tempo ed entrambe entrano in contatto con l’altro, quel Te insieme al quale intraprenderanno un’esplorazione dolorosa e sconvolgente, necessaria ed entusiasmante dentro uno spazio aperto e senza confini, quello di citando il titolo di un romanzo in realtà molto celebrale di Alberto Moravia, Desideria o la vita interiore. Il rapporto tra un dentro in continuo movimento e trasformazione e un fuori che invece rimane statico e immobile, non può che innescare una miccia che fa saltare tutti i meccanismi del sistema e gli automatismi che le persone hanno attivato per adattarsi, abdicando alla loro parte umana o quanto meno a un contatto profondo con se stesse, per indossare le maschere della rappresentazione di una vita alienata.
Per Olivia il “Te” si chiama Lorenzo, il fratellastro adolescente che va a nascondersi nella cantina di casa facendo credere ai genitori, preoccupati per la sua tendenza alla solitudine e al silenzio, di essere partito per la settimana bianca, mettendo in scena una volontaria sospensione del tempo e del movimento interrotta proprio dalla burrascosa irruzione di Olivia che va a riattivare nel ragazzo un senso di appartenenza e di non estraneità attraverso la memoria di un passato condiviso e il presente di un disagio concreto e reale: la tossicodipendenza e la crisi di astinenza di Olivia, nei confronti delle quali Lorenzo sarà costretto ad attivarsi in un gesto di autentica solidarietà, esattamente come avveniva per la ragazza che sosteneva l’amica nella dolorosa e mortificante procedura dell’aborto clandestino in 4 mesi,3 settimane e 2 giorni.
Il “Te” di Alina, invece, ha il volto smunto e il corpo minuto di Voichita, l’amica con cui ha condiviso l’esperienza dell’orfanotrofio, in un rapporto che fin dalla prima immagine di loro due insieme riassume il senso di una dipendenza, di una morbosità, un patto di sangue che si stabilisce in maniera particolarmente vincolante tra due adolescenti orfane e sole in un contesto di violenza e privazione. Cosi Alina le corre incontro sui binari e l’abbraccia in un pianto disperato, un aggrapparsi con le emozioni e senza difese alla concretezza del corpo come rifugio consolatorio, così diverso dall’abbraccio/danza dei due fratelli nel finale di Bertolucci, il riconoscimento struggente sulle note epiche di David Bowie e le parole più ordinarie ma forse più pertinenti della versione italiana di Mogol (Ragazzo solo,ragazza sola) contro l’incipit del film di Mungiu che già annuncia una discesa a spirale verso rapporti di dipendenza, isteria, repressione dello spazio vitale. Perchè l’Io e Te di Alina si allarga ad un microcosmo più strutturato e più esteso della cantina di Lorenzo e Olivia, il monastero di una comunità religiosa ortodossa, ordinata da un sistema rigidamente patriarcale dove l’unico uomo, il PadrePrete comanda un gruppo di SorelleSuore coadiuvato, ma sempre in posizione subalterna, da una suora più anziana a cui viene dato l’appellativo di Madre.
Uno schema destinato ad essere sconvolto dall’introduzione dell’elemento esterno che si impone nell’imprevedibilità e nella forza primordiale di Alina, la natura che travolge il vecchio residuato di una cultura obsoleta e fuori dal tempo, arroccata nell’immagine di un monastero recintato e situato in cima ad un monte. E questa forza primordiale che mette in moto una discesa verso la perdita del controllo per il Padre e dell’identitàruolo per le Sorelle che andranno in tilt come le formiche di Lorenzo mosse da Olivia, in Alina si manifesta nell’amore assoluto e possessivo per Voichita, nel desiderio di vivere con lei un culto alternativo a quello del Dio della chiesa ortodossa, ma speculare nella stessa forma di integralismo, di soffocamento e oppressione.
Una concezione ben diversa da quell’io e te che Olivia propone a Lorenzo dove l’assenza di punti di vista consentirebbe il superamento di ogni conflitto, di ogni divisione e quindi di ogni gerarchia, a qualsiasi livello relazionale, sociale e politico.
Ma pur senza la consapevolezza e gli strumenti con cui Olivia aiuta Lorenzo a trasformare la staticità della sua condizione in movi
mento dinamico, seppur colto nel qui ed ora come fa intendere il fermo immagine del finale, anche Alina crea uno squarcio nell’isolamento e nell’ottusità del monastero, con la potenza e la violenza del Cristo rivoluzionario nella chiave in cui l’ha raccontato Pier Paolo Pasolini, come nelle scene, terribili perchè contrappuntate da una beffarda ironia, dell’esorcismo a cui l’irrequieta Alina viene sottoposta, incatenata e imbavagliata su delle tavole di legno a forma di croce mentre il Padre e le Sorelle pregano per liberarla dal maligno.
Se Lorenzo tocca le ferite dell’aprirsi alla vita sul corpo vivo in preda alle convulsioni, al vomito e al dolore tangibile di Olivia, Voichita comincia ad alzare lo sguardo sull’immolarsi di Alina su quella croce, sul suo corpo consumato e depredato dalla mancanza di comprensione, di amore, di accoglienza, alla radice probabilmente della stessa sofferenza e dello stesso vuoto di Olivia.
E il momento immediatamente precedente il finale del film di Mungiu che, in un curioso e casuale gioco di rimandi e collegamenti, riprende l’immagine della conclusione originale del racconto di Niccolo Ammaniti modificato invece da Bertolucci, sarà un corpo senza vita sulla barella di un ospedale, il punto di non ritorno, la linea di confine per guardare Oltre le colline: Io e te.
Anche se alla fine l’unico movimento che permette di cancellare lo sporco e vedere con chiarezza la strada è quello meccanico, automatico dei tergicristalli di una macchina e non ci è concesso il controcampo dello sguardo nella mdp di Voichita, un’apertura liberatoria, quasi catartica che Bertolucci al contrario offre al suo Lorenzo, come se, attraverso la forza di un’immagine, volesse affermare forte e chiaro il concetto che Mungiu fa dire esplicitamente alla sua protagonista:
Non ho paura.