Tra i personaggi più singolari della stagione cinematografica in corso, che fa il palio con una stagione climatica particolarmente fredda e segnata dalla neve, spicca il grosso, laconico e tenero Jomar protagonista di Nord, opera prima del documentarista norvegese Rune Denstad Langlo. Una piccola storia di neve, solitudine e disagio presentata all’ultimo festival di Torino e talmente piaciuta a Nanni Moretti che ha fatto la scelta azzardata di distribuirlo attraverso la Sacher Distribuzione.
Perché scelta azzardata? Perché prima di tutto Nord, come suggerisce anche il titolo così generico, è un film che sfugge da qualsiasi definizione in quanto si muove sul terreno scivoloso che sta a metà strada tra la commedia grottesca e il dramma psicologico. Tra il road movie con motoslitta e scii al posto della Harley Davidson e il racconto di formazione. Oltre c’è anche una spiccata sensibilità per le immagini delle desolate, immense montagne ghiacciate dell’Artico che rivelano la formazione documentaristica dell’autore. Il fatto è che con Nord non si intende solo dare l’indicazione geografica della vicenda, ma si indica proprio il momento esistenziale in cui si trova questo Jomar dal fisico massiccio e il volto da bambino cresciuto, che ci viene presentato fin dall’incipit come il solitario gestore di una stazione sciistica, talmente disinteressato a quello che lo circonda da rimanere chiuso nella sua inespugnabile fortezza di silenzio, nella regressione ad uno stadio infantile, al rifiuto delle responsabilità e all’idea della più totale precarietà e vulnerabilità, una persona giunta ad un punto morto.
E per questo motivo Langlo non si affida a discorsi esplicativi o ricorre ad espedienti narrativi articolati come i flash-back o anche semplicemente immagini che tornano dalla memoria a ricostruire una storia e un passato. Il punto morto in cui staziona Jomar ha cancellato la possiblità dell’immaginazione e del ricordo e le informazioni che ricostruiamo dalla sua storia vengono connotate, associate ad azioni prepotentemente fisiche: lo vediamo giocare a ping-pong nella sala dell’ospedale psichiatrico prima di andare a colloquio con la psicologa, o fare a pugni con un uomo che lo viene a trovare nella stazione sciistica e si rivelerà poi il migliore amico di un tempo, divenuto il nuovo compagno della moglie di Jomar. Questo doppio tradimento associato alla depressione ed una stroncata carriera di sciista, daranno la cornice entro cui collocare il corpulento protagonista, la sua insofferenza “congelata” nell’espressione costantemente assente, riuscendo a trasformare le tortuose distese di ghiaccio e neve nella continuazione del proprio spazio interiore e nella necessità di compiere quel viaggio per trovare uno spazio di calore e condivisione.
Senza voler tirare in ballo paragoni troppo ingombranti, la piccola odissea che compie Jomar per ritrovare la moglie e soprattutto il figlio di quattro anni, che non vediamo mai e sentiamo solo nominare come presenza di un’identità perduta, è un po’ il suo “falso movimento” wendersiano.
Un continuo, insistente spostamento della propria dimensione fisica alla ricerca di un cambiamento, di una trasformazione, di una maturazione esistenziale della quale alla fine non vediamo o, forse, intravediamo il risultato, pur avendo già percepito un differente livello di consapevolezza con la riconquista di quel passato e di quell’identità. La possibilità che questo percorso si compia, viene tradotta nella livida rappresentazione di un’umanità – quella che incontra Jomar durante il suo viaggio – che contiene in sé quella necessità di contatto e di relazione che porta a rompere la prigione dell’inaffettività e la condizione di isolamento cui spesso condanna proprio l’ubicazione geografica di quei luoghi.
Tutte le solitudini con cui si relaziona Jomar, dalla ragazzina abbandonata dai genitori con la nonna al giovane solitario che maschera pulsioni omosessuali dietro una rozza omofobia, invocano semplicemente la necessità di essere toccati profondamente. Il regista ricerca questa necessità confinando i personaggi dentro case dai grandi spazi, poco arredate, dove i muri acquistano la reale dimensione spaziale di ostacolo alla comunicazione. Non a caso il personaggio più compiuto e risolto, più conciliato con le sue emozioni, è l’ultraottantenne che vive su una tenda piantata sopra una lastra ghiacciata, definendo, all’interno di quello spazio piccolo segnato dalla presenza simbolica del fuoco che scalda e accoglie, la possibilità di ascoltarsi e di riconoscersi. Probabilmente il limite che inibisce Nord dal diventare un piccolo capolavoro, e Jomar un personaggio davvero memorabile, è paradossalmente quello di essere troppo contenuto, ellittico, sfuggente purtroppo non solo alle definizioni ma anche ad un coinvolgimento emotivo che i suoi personaggi, dietro la patina del grottesco, chiedono a gran voce e che l’autore non ha voluto ascoltare, forse per il timore di scadere nel patetico – rischio per altro non del tutto evitato – o, peggio, nel sentimentalismo, preferendo scegliere un controllo totale e molto “nordico” di un materiale così ardente e vibrante, del quale tuttavia riusciamo a cogliere qua e là delle scintille.