Autunno. Silenziose luci delle auto sulla tangenziale. Silenziosi corpi in movimento colti da una finestra chiusa. Silenziosa, ma che vuoi, meravigliosa, Roma notturna. Pianoforte malinconico a legare l’incipit mentre a leggere i titoli di testa c’è mezzo cinema italiano a recitare. Pronti via, di che si parla? Solitudine, amore, sofferenza, quotidiano. “Basta!” avranno detto in tanti, riecco la camera e cucina e l’ombelico che una certa generazione sta tentando di demolire e di dimenticare. Puzza di Comencini, puzza di Muccino, odor di Calopresti, di Sole Tognazzi? Piano con l’accusa perchè si può parlare di tutto se si è tenuti a farlo, se se ne ha la voglia e se si trova qualcuno disposto ad ascoltare. Perciò Tavarelli potrebbe anche rappresentare un cinema intimo, dei sentimenti e dei rapporti amorosi e nessuno sarebbe nella posizione di imporre l’argomento o di criticarne la scelta. Figurarsi se il nostro bisogno di trasposizione della realtà in cinema obbligasse i nostri autori a lasciar stare il privato, come se improvvisamente non fosse, questo, più realtà ma fantascienza. Si può parlare di tutto. Poi si può essere in grado di farlo in maniera verticale, andando cioè in profondità, o in modo orizzontale, rimanendo in superficie e lasciando il campo a pensieri che mamma “raiset” ci espone quando lo vogliamo.
Ora, Gianluca Maria Tavarelli fa un film trangenerazionale sul rapporto tra l’innamoramento umano e l’esistenza del singolo contemporaneo in un paese come l’Italia. Non si può dire che questo non sia utile come non si può dire che questa categoria tematica sia capace solo di se stessa, nel senso che dentro questo tema c’è quasi un testo libero da poter portare in film. Il lavoro, per un rapporto tra il film e la sua valenza sociale, speranza di uno che crede nel cinema come strumento per far stare meglio la gente, e non per farla stare peggio, sta nell’elaborazione del materiale di cui si è scelto di parlare. Gianluca Maria Tavarelli mette in campo una squadra di campioncini di cinema e li dispone con un modulo abbottonato che tenta prima di tutto di non prenderle: a guardia della porta del botteghino e della stabile convenzione pone uomini, argomenti e ambienti. Su questa rassicurante barriera di familiarità si infrange sia l’interessante analisi del modo contemporaneo di entrare in relazione, sia la ricerca linguistica che disordinatamente altrove sta avvenendo.
Inaudi Binasco Zingaretti, Gassman Cortellesi Tirabassi, Renzi Papaleo Cescon, Finocchiaro e Battiston. Ecco l’undici da uefa che gioca per lo zero a zero senza infamia e senza lode. Bisogna amare il cinema e pretendere da questo una forma comunicativa capace di stravolgere il quotidiano anche quando lo si adopera. Altrimenti, e questo per l’ultimo tortino taverelliano potrebbe anche accadere, si sostengono gli alibi dei non cinefili e si deride il desiderio di chi rincorre il cinema italiano in funzione di un rapporto distruttivo-costruttivo con il paese. A patto che non ci si trovi di fronte al genio o non si decida di ragionare sull’evasione attraverso la risata fragorosa. In quel caso un Manuale d’amore lo si accetta in toto. Qui si sorride un paio di volte. Poi si ascoltano incomprensibili dialoghi da Uomini e donne, Sex and city e si tagliano i blocchi narrativi con l’accetta. Usare undici attori e riuscire a fare un film non corale, ma nemmeno ad episodi, è un triste risultato. Alla potente fisicità della giovane e brava Inaudi si concedono sempre i cinque minuti da amante comprensiva e insoddisfatta, poi il quarto regista della sua difficile carriera la lascia perdere, come se non avesse l’intera gara nelle gambe. Binasco mantiene la sua silenziosa misoginia, Zingaretti lavora freddamente su un personaggio da mettere in fretta nel fondo del cassetto. Gassman sarebbe pure bravo se lasciasse perdere di imitare il padre. Paoletta Cortellesi è la malinonica amica del cuore che c’è al momento del bisogno ma le manca qualcosa perché ci si possa innamorare di lei. Tirabassi più fa il drammatico e più fa ridere, ma forse questo è un problema personale di chi scrive mentre uno che fa veramente ridere è Andrea Renzi: può interpretare pure un uomo che sta per essere sbranato da un orso bianco eppure avrà sempre la faccetta stupita vagamente persa nel vuoto. Papaleo è uno dei migliori caratteristi in circolazione e lo conferma con questo slegato e stonato personaggio surreale in un film che insegue, senza raggiungerlo, il realismo di coppia. Simile conclusione per il robusto cammeo di Battiston, e discorsi opposti per le restanti due donne impegnate del cinema italiano. La Cescon è in grado di fare tutto bene e questo film avrebbe pure potuto non farlo. Eppure l’ha fatto e ha giocato la sua partita con orgoglio, tecnica e personalità. La Finocchiaro, invece, dopo l’exploit di Angela, l’illusorio romanzo d’amore della Torre in cui si muoveva straordinariamente, ha interpretato una serie di personaggi, Regista di Matrimoni compreso, senza mai dare l’impressione di essere un talento.
Concludiamo col regista al quale vorremmo, quanto prima, dedicare un’intervista. In primo luogo perché di solito la chiacchierata con l’autore fornisce strumenti utili all’approfondimento e all’alleggerimento dei problemi di un film. Secondo perché questo è un film sbagliato ma molto italiano. Per cast, paesaggio culturale e luce. Il suo film non ci è piaciuto perché ci è sembrato sviluppato senza sensibilità, ragionamento e senza mestiere cinematografico. Con una certa sensazione di impotenza, gli auguriamo un buon incasso ma lo sconsigliamo vivamente a chi si arrabbia dopo un brutto film.