Perchè sì |
Perchè no |
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di Raffaele Giannitelli Cormac Mc Carthy vive ad El Paso, Texas. Non saprei ben spiegare il motivo, ma per parlare di questo film mi sembra essenziale dare l’indirizzo di casa dell’autore del romanzo da cui è tratto, anche perché sarebbe troppo lungo raccontare della sua “trilogia della frontiera” piena di storie in cui uomini, ragazzi e animali selvaggi incrociano le loro esistenze quasi sempre solitarie e violente. I suoi personaggi fino a questo romanzo erano banditi, ladri di cavalli e lupi in una sorta di universo “into the wild” ante litteram, realistico, malinconico e doloroso. Poi Mc Carthy ha scritto Non è un paese per vecchi con il racconto di una storia contemporanea dove la malinconia e il dolore della vita, da cimento solitario divengono un confronto con una follia collettiva priva di senso che non è più possibile affrontare e comprendere. Dopo il romanzo portato al cinema dai Coen ha poi proseguito il suo cammino con quello che a parere di chi scrive è veramente il suo capolavoro, La strada, dove ci sono tutti gli esiti di quella follia già presente nel romanzo precedente con l’unica risposta umana possibile, per quanto disperata e solitaria. Uno dei più bei racconti del sentimento d’amore tra un padre e un figlio soli e circondati. Tornando al film si riscontra una fedeltà al romanzo quasi stupefacente: i Coen non tralasciano nessuna delle situazioni fondamentali presenti nell’opera di McCarthy, rivelando una capacità straordinaria di analisi e di sintesi del testo in scena. Lo strumento cinematografico è messo completamente a disposizione del racconto, replicando lo stato di tensione e di angoscia che anche il testo scritto trasmette al lettore – criticabile solo l’aver mantenuto intatti alcuni dialoghi che al cinema perdono efficacia infondendo alla storia un eccesso di lirismo non indispensabile. Il folle Chigurh non è un personaggio splatter che vive solo in un mondo fantastico e lo stesso può dirsi di tutti quelli che attraversano la storia, tutti portatori di un loro io insensato nel medio termine, ma efficace e determinato nel breve/brevissimo agire che li contraddistingue. Non c’è un senso nella vita degli uomini che troviamo sullo schermo e le loro azioni non posseggono mai, neppure per un istante, una ragione strategica, ma solo una raffinatissima capacità tattica con un fine immediato da raggiungersi senza mediazioni o particolari accortezze. Come quando Bardem/Chigurh, pur di procurarsi alcune bende e medicinali, distrugge una farmacia incendiando una macchina parcheggiata di fronte, oppure quando i trafficanti di eroina, per rientrare in possesso di una valigia piena di dollari, scatenano il folle killer, sapendo che una volta innescato sarà completamente fuori dal loro controllo e si trasformeranno essi stessi vittime della sua fredda furia assassina. Nessuno è in grado di controllare Chigurh, nessuno è in grado di comprendere o prevedere cosa può accaderci, ormai è troppo tardi abbiamo scatenato forze troppo potenti il cui esito non potrà essere altro che il desolato paesaggio di distruzione che McCarthy tratteggerà nel successivo La strada. Conoscendo poi l’intenso, aspro ed estremo amore per gli animali e i luoghi di questo pianeta che l’autore ci ha narrato nei suoi precedenti romanzi, appare chiaro come il Male incarnato dall’assassino del film è qualcosa alla cui costruzione tutti abbiamo concorso e che, almeno nell’opinione di McCarthy, ormai nessuno potrà più disinnescare. |
di Alessia Brandoni I fratelli Coen con il loro ultimo lavoro, che ha vinto l’oscar per il miglior film del 2007, proseguono le loro fredde passeggiate tra cinema di genere e cinema d’autore, questa volta trasponendo sullo schermo il libro dell’americano Corman McCarthy Non è un paese per vecchi. La trama non è complicata e fila dritta pure negli imprevisti. Un ex reduce del Vietnam, fattosi buon loser di provincia, con tanto di cappellone cowboy piantato sulla testa, durante un giro di solitaria e virile caccia all’antilope, incappa in un bagno di sangue – spettacolarmente raggelato nello spazio vuoto del deserto – probabile regolamento di conti di trafficanti di droga. Il cowboy annusa veloce l’odore del bottino nei paraggi, che puntuale si materializzerà in una borsa nera grondante sangue e soldi, ma poi fa l’errore di concedersi – in un mondo giovane ed eternamente votato all’attimo presente – una deviazione sentimentale dalla traiettoria che casualmente gli si è posta di fronte e che lui ha decisamente colto al volo: torna indietro sul luogo del delitto per portare da bere all’unico superstite del massacro, comunque destinato a morire. Con questo atto eroicamente inutile la sua strada si intersecherà irreversibilmente con quella dello straniero Chigurh (un allucinato Javier Bardem), killer psicopatico che vuole impossessarsi dei soldi, e con l’altra della sceriffo buono (un troppo saggio Tommy Lee Jones) che vuole salvarlo prima di andare in pensione. Il western tradizionale e il duro hard boiled (letteralmente “uovo sodo”, genere letterario immaginato dallo scrittore Dashiell Hammett negli anni venti), generi di riferimento maneggiati come fuochi artificiosi dai Coen, vengono trasposti negli spietatissimi e competitivi anni ottanta, in una prospettiva che sembrerebbe astorica e nella quale il genere diventa più che altro il pretesto narrativo per una ricognizione sulla disumanità e la cupidigia allo stato grezzamente puro, ripulita dalle contraddizioni della Storia. Tutto è truce e senza riscatto, in questo on the road formale che toglie anche il gusto del duello finale, l’evento avvenendo altrove, per mano dell’ulteriore traiettoria incontrata per caso, che senza tanti retropensieri e coinvolgimenti emotivi fa piazza pulita della corsa verso l’oro. Alla fine non mancherà, seppur di traverso, la vittoria del cattivo (suggerita dalla sua sopravvivenza e dal passaggio virale dei soldi ai ragazzini) e la resa amara dello sceriffo al Tempo e ai Padri. L’ironia molto autoreferenziale dei Coen sembra non riuscire, in questo caso, a nascondere la seguente operazione: prendi il granitico Terminator, fanne una versione western alla Tarantino-Leone, mettici un finale cupo alla Clint Eastwood: è lo spettacolo, bellezza. Il manicheismo permea pesantemente la visione dei due registi: il cattivo sembra un alieno, un non-umano che uccide spietatamente e che provoca ribrezzo (il caschetto in questo senso aiuta…); il buono è uno sceriffo vecchio e stanco che sogna il padre che, come una figura mitica e divina, gli indichi il cammino. Sembrano lontani i tempi in cui Marlon Brando ci ricordava, emergendo dalle tenebre, che il male alberga dentro e non fuori di noi… Meno male che c’è in giro gente come P.T.Anderson – coetaneo più giovane dei Coen- che con coraggio ci mostra la vecchia America con il volto del petroliere e dei falsi profeti. Alla destrutturazione del genere non sembra insomma corrispondere una destrutturazione della Storia utile in qualche modo alla sua comprensione. In realtà i personaggi sembrano mossi da spinte univoche, da ondate che, se non schivate, portano dritte al punto di esaurimento della forza centripeta. Le scelte e le emozioni non trovano lo spazio per uscir fuori dal condotto pressurizzato, agendo solo la logica spietata della sopravvivenza, oppure, quando ci sono, arrivano troppo tardi (come nello scarto iniziale del cowboy), rappresentando solo degli espedienti per la deriva tutta organizzata dell’intreccio. Un’organizzazione del caos in traiettorie eterodirette (una sceneggiatura costruita a tavolino con tanto di finale sospeso) e una rappresentazione esteticamente raggelata, distante eppure perfettamente spettacolare, della decadenza morale e sociale di un paese. La morte del sogno americano sublimemente perfetta, tutta chiusa in una specie di andatura aneddotica, in cui il contesto, seppur evocato, non prende mai corpo né dunque peso. Il passato, in tutto questo, sembra costituire l’unico punto di riferimento (il sogno dello sceriffo che sembra quasi salvare le radici dell’America nel cuore degli americani), mentre le donne, in quest’universo ruvido e competitivo, non esistono se non come svampite e fidelizzate penelopi, madri pazienti, futili tentazioni. Nulla può cambiare, tutto essendo meticolosamente scritto. Soldi e violenza sono i motori che non smettono di girare e che, se ben oliati da cinemascope, sfondi sonori e dettagli iperrealistici in splovero, danno ebbrezze vertiginose, più che creare consapevolezza sulla loro reale traiettoria. L’impressione, alla fine, è che questo meccanismo di precisione sia più che altro una consolazione artistica alla scelta di non sporcarsi le mani nella trasformazione della realtà. E probabilmente non è un caso che una delle più potenti industrie statunitensi ne abbia decretato il successo dandogli la pesante statuetta d’oro, sospetto lavacro di coscienza che però non purifica dal senso di impotenza e ineluttabilità rilasciato dal film. All’uscita del cinema, un ponte di una gru da costruzione sbuca sospeso tra le cime degli edifici accostati, sopra dei gabbiani lampeggiano, in quiete, offrendo finalmente una via di fuga verso un’alt(r)a possibile prospettiva. P.S. Vengono in mente, di traverso, le nuvole folli di Pasolini, riscatto meraviglioso che l’arte – con uno scarto che spariglia l’ironia e il distacco – dà al malvagio Jago e al furioso Otello, scegliendo di toglierli dalle mani del manipolatore, del burattinaio, per gettarli senza armi e senza fili in una discarica in cui riuscire infine a guardare il cielo. |
sembra un universo tutto al maschile. T’ho letto tutto d’un fiato e il film lo andrò a vedere (a proposito di strade e di polvere, dice Branko che oggi ci tocca un mezzogiorno di fuoco, l’happy end poi ci sarà ma
fattene una ragione e quindi una praticaa lungo termine)