Il cinema è arte e come ogni manifestazione creativa può essere guardato da due angolazioni diverse: una esclusivamente formale e una puramente emozionale. Solo le opere immortali fondono la visuale e certo il bel film di Rob Reiner, già applaudito regista di Harry ti presento Sally, Misery non deve morire e Codice d’onore, non è fra queste.
Tuttavia al termine della proiezione di Non è mai troppo tardi, l’applauso viene spontaneo dal cuore, al di là delle debolezze strutturali da critica cinematografica.
La storia sentimentale e umoristica al contempo, interpretata da Jack Nicholson e Morgan Freeman in ruoli ormai collaudati, con la poliedricità interpretativa che li caratterizza per la quale superflui sarebbero lodi e commenti, nasce da una lista che un professore di filosofia propose in gioventù a uno dei due protagonisti: il meccanico Carter (Freeman). Nella lista gli studenti avrebbero dovuto elencare le conquiste, i desideri e ogni cosa avessero voluto fare o realizzare nel corso della vita; l’improvviso arrivo di un figlio al quale era seguito un matrimonio e poi altri due figli, per Carter aveva significato, oltre l’abbandono degli studi, anche la rinuncia a ogni sogno contenuto nella lista.
Ormai anziano, a Carter viene diagnosticato un cancro in fase terminale: sdraiato con rassegnazione in un letto d’ospedale conosce il magnate multimilionario Edward (Nicholson), antitetico a lui come carattere, ma accomunato dalla medesima diagnosi letale. Casualmente Edward viene a conoscenza dell’idea della lista e propone a Carter, nel poco tempo che resta da vivere a entrambi, di realizzare quei propositi.
Ecco allora questa comica coppia di settantenni incamminarsi verso avventure ora adolescenziali ora più intime, affrontate con l’entusiasmo e la passione di chi sa che l’orologio della vita scandisce un tempo inesorabilmente limitato.
Fine conoscitore del ritmo cinematografico, Reiner affida ai magistrali duetti fra due grandi interpreti come Nicholson e Freeman buona parte della riuscita del film, conservando intatto per tutta la durata della pellicola, l’equilibrio fra umorismo e commozione, a rendere la storia appetibile persino al pubblico meno volto alla ricerca introspettiva.
Vasto è il territorio del “rimosso” che viene toccato nello spettatore: il senso della vecchiaia comunemente intesa come rinuncia, ripiegamento, attesa passiva della morte. La malattia come condanna, e il suo riflesso: la vita vissuta come malattia, croce da trascinare piuttosto che occasione da godere. Il senso di immortalità che pervade l’uomo nel corso della vita, come se la morte non fosse dietro l’angolo e ci fosse sempre la possibilità di rimediare a ciò che non si è fatto, per sentire il tempo battere al ritmo interiore, in una parola per vivere con coraggio piuttosto che sopravvivere da pusillanimi. E la gioia: quella sconosciuta più simile a un’invenzione da barzelletta che ad una ricerca da intraprendere, prima che sia troppo tardi.
Essere felici: una possibilità reale o solo un’utopia?
E poi il senso del tempo, della sua durata: quarant’anni passano come un soffio, dicono i due protagonisti, come l’anno che vivono insieme somiglia all’eternità delle emozioni vere.
Non è mai troppo tardi è anche storia di un’amicizia, un incontro che la malattia rende autentico, nella drammaticità senza appello che regala. Ma anche nella consapevolezza della preziosità immortale di un istante.
Da un punto di vista cinematografico non mancano passaggi scontati, forse anche escamotage narrativi sfruttati e al limite poco credibili, ingenuità tematiche: ciò non intacca il valore umano ed emotivo della pellicola.
Nell’era cinematografica del digitale usato spesso come riempitivo all’assenza di contenuti, della mostruosità o peggio della violenza come stimolo a riempire le sale, per film come Non è mai troppo tardi, che veicolano verità importanti, per quanto apparentemente scontate, un applauso è d’obbligo.