Il “supercinema Grivi” è un bell’edificio degli anni ’30, concepito e progettato per questo scopo, e assolve magnificamente ai suoi compiti, sia tecnologico-funzionali che simbolici. Un buon esempio di razionalismo italiano che, pur dentro gli stilemi e le teorie del periodo, lambisce la gelida narrazione della Bauhaus di Gropius, apre dolcemente la strada alla metafisica e lascia intatto lo spazio dei sogni e dei desideri, come dovrebbe fare ogni edificio ben riuscito.
È l’unico cinema di Enna, ma non nel senso dell’unico cinema “rimasto”, ma proprio l’unico cinema che c’è mai stato, e quindi è la fabbrica dei sogni di un’intera comunità, arroccata a quasi mille metri su un piatto crinale di una piramide troncata. Si trova proprio davanti al mio B&B e danno Noah. Impossibile resistere.
Si vorrebbe ri-vedere e rivivere il colossal del cinemetto della parrocchia di quando si era piccoli, estasiati di fronte alla potenza di Dio e del cinema, muti e attoniti di fronte alle immagini che parlano al cuore ed eccitano la mente, quando l’andare al cinema era un’esperienza esistenziale e sensoriale ed era parte del vissuto quotidiano, dove sogno, desiderio e timore erano condensati nel momento in cui si spegnevano le luci e la musica si diffondeva. Non è così, e purtroppo non è neanche un’altra cosa, che forse era lecito attendersi dal regista di The wrestler e Il cigno nero.
Aronofsky pasticcia un tema bellissimo e complesso con un cast di divi che sembra uscire direttamente dai commercial televisivi o dalle pagine patinate delle riviste alla moda, per approdare ad uno pseudo scenario Tolkeniano, per giunta di second’ordine, con angeli imprigionati dentro mostri rocciosi che si muovono come degli improbabili godzilla. Russel Crowe non esce dai panni del gladiatore, del gigante buono, Emma Watson da quelli dell’isterica maghetta saputella, Jennifer Connoly è bella ma non molto brava, Anthony Hopkins si fa il film suo e solo Logan Lerman imprime una certa profondità al suo personaggio, il più interessante. Cam, il secondogenito di Noè, infatti, è diciamo così, il figlio non eletto, colui a cui non tocca la primogenitura, la perpetuazione della specie, ed è cosa non secondaria nella narrazione divina. Che cosa, allora, spinge a scrivere dopo una impressione così negativa e tranchant? Si potrebbe buttare tutto via e passare oltre, pensare ad altro.
In realtà, a fermarsi un po’ di più, a riprendere la Bibbia e a scorgerne la parabola con più attenzione, dalla genesi fino al diluvio universale, poche dense pagine, a cercare di confrontare la sceneggiatura con la storia originale narrata e a tentare di capire il perché di alcune deviazioni e invenzioni, poche in verità, ma essenziali per il discorso di Aronofsky, ebbene, lo stimolo alla riflessione si fa strada.
Il Pentateuco ci racconta del bisogno che ha Dio dell’uomo, per esistere, e dell’alleanza che viene formandosi tra Creatore e Creato per dare senso alle rispettive esistenze – è un concetto molto sfuggente e di difficile comprensione in verità, e per questo affascinante. L’umanità è divisa, dai tempi dell’emarginazione di Caino, tanto che la discendenza di questi sembra voler lottare contro Dio e il suo volere, in una sorta di primordiale emancipazione dal Padre, tema poi alla base delle indagini psicoanalitiche freudiane. Ora, è qui che Aronofsky propone la sua lettura, introiettando in Noè la consapevolezza della malvagità assoluta dell’umanità e non solo di una parte di essa, tanto che l’ordine del Signore è percepito come un comando di distruzione di tutta l’umanità; l’arca dovrà servire solo a salvare gli animali, dato che la compagna di Sem, il primogenito, è sterile. Ma la ragazza non lo è, in effetti, e sull’arca nasceranno due bambine gemelle. Noè, e qui torna in ballo la figura del padre onnivoro e onnipotente, vuole ucciderle e adempiere così il volere di Dio, ma in realtà è il suo volere inconscio a volersi affermare, il suo desiderio di essere Dio, il Dio della distruzione.
Comincia la lotta tra amore e morte nell’uomo giusto e buono, comincia la separazione dell’uomo da Dio. Aronofsky vuole fondare la sua visione su questa lotta, uscire dalla narrazione biblica che vuole che l’alleanza tra Dio e umanità avvenga attraverso un popolo eletto (per gli ebrei, con Cristo le cose cambiano, per i cristiani). Nell’antico testamento, tuttavia, non c’è traccia di questo conflitto, a Noè non viene chiesto di distruggere l’intera umanità, colpevole e corrotta, compreso lui stesso e la sua discendenza. La lotta interiore tra l’esecuzione spietata e disumanizzante del volere di Dio e la disperata ricerca del vero significato dell’esistenza dell’umanità, con tutte le sue contraddizioni – umane, per l’appunto – è il tema che Aronovsky intende sviluppare attraverso la rappresentazione del conflitto interiore del Padre, e aprendo alle aspirazioni del personaggio più controverso e interessante: Cam, il figlio negato. Il non eletto cerca riscatto nell’umano sentimento della vendetta contro il padre e quando questi gli impedisce di portare sull’arca una donna della discendenza di Caino, lo vuole uccidere (e l’uccisione del padre è l’atto fondamentale per superare il complesso della castrazione). Cam stringe allora un patto scellerato con Lamech, il capo della stirpe maledetta di Caino, che si introduce nell’arca con la sua complicità per uccidere Noè e affermare così con la forza il diritto all’esistenza e al dominio dell’uomo contro il Dio Padre. Ma se nelle tragedie greche, nell’Edipo Re, il figlio uccide il padre e giace con la madre, anche se per il gioco crudele del destino, nella visione di Aronofsky la potenza tragica si dissolve: Cam salva il Padre, uccide Lamech (il male) e dà corso alla storia caritatevole dell’umanità.
Amen.
Tutto è ricondotto da Aronofsky ad una semplificazione falsa e insopportabile. Il dissidio, la
lotta titanica dell’uomo contro Dio e contro se stesso è di nuovo riportata dentro l’amorevole umanità di Noè e della sua famiglia; un finale che sembra quasi incredibile che il regista abbia deliberatamente e autonomamente scritto, ma siamo in uno pseudo-colossal e tutto diventa possibile.
Un pasticcio. E comprendo che cercare di dare conto dell’intreccio narrativo per restituire al lettore un minimo di intellegibilità rischia di ingarbugliare ancora di più le cose. Peccato, perché se il tentativo intrapreso dal regista fosse stato permeato da più rigore, coraggio e sincerità, forse allora, con la mente libera dal fardello dell’inutilità e della superficialità, qualcosa di sensato, e di perduto, a luci accese si sarebbe ritrovato.