Nel foglio di sala di Wonderland, visto in chiusura della prima tranche del Napoli Teatro Festival (si riprenderà a fine settembre per un’altra settimana di spettacoli), leggiamo tra le influenze dichiarate dall’autore e regista Matthew Lenton: Alice nel Paese delle meraviglie, Il meraviglioso mago di Oz, il recente e discusso Shame di Steve McQueen. Tutto giusto, tutto vero e anche di più: Wonderland è un patchwork ricco e complesso di materiali diversi innestati su una base tematica forte e attuale: in due parole, il debordare della pornografia nella vita contemporanea. A partire da questo nucleo, che è più uno spunto concettuale che un vero e proprio innesco narrativo, Lenton, insieme ai suoi attori, ha costruito un testo aperto, debole nel senso più alto del termine: cioè disponibile a una riscrittura continua e potenzialmente infinita.

Da Alice è chiaramente mutuato lo spunto per così dire archetipico e facilmente metaforizzabile dei due romanzi di Lewis Carroll: dove lì si narrava dell’avventura di una bambina spinta dalla curiosità in un luogo fantastico popolato da creature al tempo stesso bizzarre e un po’ spaventose, la Alice di Lenton è una ragazza dei nostri tempi che, scappata di casa, va dietro alla sua propria curiosità, che la spinge a diventare un’attrice hard. Il mondo estremo della pornografia le si schiude davanti in un crescendo di abiezione, mentre alla sua vicenda si alterna sulla scena – poco a poco finiranno per incrociarsi – quella di John, quarantenne a cui non basta la quieta vita di coppia e perciò ogni notte s’impiglia nel web, tra chat erotiche e video sempre più snuff (ecco Shame). Sia per Alice che per John i wonderlands in cui si inoltrano – reali o virtuali che siano – e i personaggi che li abitano rappresentano le realizzazioni di desideri profondi in cui la fiaba si distorce nell’incubo e viceversa; ciò che L. Frank Baum ci aveva ben mostrato in Oz.

Sul palco l’azione prende vita dietro una grande lastra di vetro che separa il pubblico dalla scena filtrandone la visione. All’inizio un uomo dalle fattezze di coniglio che sta al di qua della lastra, che funge da narratore oltre che da custode/Caronte del wonderland, ci spiega che la realtà è fatta di stanze comunicanti: ognuno di noi ne abita una, ma continuamente siamo attratti nelle altre, per quanto pericolose e oscure possano sembrarci. E così la messa in scena di Lenton inscatola i personaggi dentro i rispettivi ambienti, spesso utilizzando videoproiezioni che scorrono alle loro spalle per visualizzarne le fantasie sessuali e costringerli in rapporto con esse.

La condizione voyeuristica dello spettatore è così portata all’estremo, potenziata da una colonna sonora lieve ma ossessiva che si insinua nella mente fino a diventare perturbante. Intanto l’uomo-coniglio «tenta» gli attori, indicando a loro, e a noi, le porte che separano/congiungono le «stanze». Dando corso alle proprie pulsioni, gli attori in scena oltrepassano queste soglie del desiderio, attivando così un tourbillon di passaggi e una incessante tensione tra il dentro e il fuori, che coinvolge evidentemente anche la condizione di chi sta in platea. Man mano però la percezione dell’esistenza di una soglia viene sottratta da Lenton allo spettatore, che inizia a percepire l’azione come un continuum: sul palco si dà vita a una vera scena della mente in cui il pensiero e l’azione, la fantasia e la pratica sono contemporaneamente rappresentati senza che sia possibile discernere. Mondi all’interno di altri mondi.

Ecco allora che il complesso apparato visivo-concettuale messo in campo da Lenton ci induce a un’ulteriore attivazione delle connessioni e ci porta – sarà certo per una originaria deformazione cinefila! – dritti verso la suggestione definitiva, cioè tra le braccia di David Lynch. Torna alla memoria, per motivi scenografici e fotografici, il salotto di Rabbits, la surreale sitcom interpretata da attori-coniglio (appunto). Ma ancor di più emerge potentemente il titolo ultimo del cineasta del Montana, cioè Inland Empire: invischiati nell’inconscio dei personaggi di Lenton, per qualche momento, durante Wonderland, ci sembra di essere di nuovo in quel retropalco del teatro di posa dove l’attrice Laura Dern si perdeva, passando di porta in porta, fino a trovare l’accesso al proprio impero della mente. E con esso il proprio definitivo smarrimento.

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