Esistere è più che mai resistere per Carmine, poco più che trentenne, napoletano, linotipista. Linotipista, cioè tipografo che utilizza il vecchio sistema della composizione tipografica «a caldo», la stampa a caratteri mobili (Gutenberg, per intenderci), quando ormai il cosiddetto sistema «a freddo», cioè la composizione al computer, lo ha ampiamente soppiantato. Esistere equivale a resistere anche per Gennaro, «uno dei primi transessuali di Napoli», che negli anni Sessanta, ricorda, attraversava la centralissima via Toledo in succinte mises femminili, inducendo i passanti allo scandalo, il papà alla disperazione e la polizia a portarlo dritto in questura.
Carmine è il protagonista di Resistenza artigiana, Gennaro uno degli interpreti del corale Le coccinelle: due piccoli documentari autoprodotti, sicuramente tra le opere migliori viste in questi giorni in concorso nella sezione SchermoNapoli, Documentari del Napoli Film Festival. Due esempi in cui la dimensione produttiva «micro», a basso costo e home-made – artigianale, appunto – non solo non mortifica il risultato espressivo, ma diventa addirittura premio, quid in più, punto di forza. Come fosse il prodotto di una vocazione. In parte, forse, perché le storie di coloro che per scelta o per destino si ritrovano marginali rispetto al tronco principale della società, si raccontano meglio se il percorso creativo che ne tesse la trama si lascia contaminare e magari determinare dal soggetto: la forma che si fa sostanza, e viceversa. Quel che è certo, in ogni caso, è che l’artigianato audiovisivo che anima i film di cui stiamo parlando, nonostante la giovane età dei filmmakers che li hanno realizzati, è un artigianato già di alta qualità.
Rinnovarsi tornando indietro
Antonio Manco, classe ’80, in Resistenza artigiana fa della piccola bottega di Carmine Cervone, collocata a Napoli in via dell’Anticaglia, nel cuore del centro antico, il set pressoché esclusivo del suo breve (21’) documentario. Mentre la voce fuoricampo di Carmine descrive le fasi del suo lavoro e talvolta si lascia andare a riflessioni di più ampio respiro sul senso intrinsecamente politico della sua resistenza lavorativa, sullo schermo lo seguiamo minuziosamente all’opera, armeggiare su leva e tastiera della Linotype ereditata da un lontano parente, far stridere le presse sotto sforzo. Una festa di immagini e suoni riempie il quadro, lasciando pian piano che siano gli strumenti, sotto le mani sapienti del tipografo, a diventare protagonisti: quasi il canto di un ritrovato rapporto uomo-macchina nell’era della dematerializzazione del lavoro.
«Rinnovarsi tornando indietro» è il romantico e un po’ ironico motto di Carmine, che combatte ogni giorno con i tempi di lavoro imposti dalla concorrenza della tipografia digitale, improponibili per la sua Linotype, e contro la legislazione corrente che vuole i suoi macchinari fuorilegge, da pensionare. Aggredito da un capitalismo scalpitante che annienta l’altro da sé, Carmine vi oppone la quieta consapevolezza di una tradizione che confina con l’arte; il saper fare – non l’arte di arrangiarsi! – che è alla base di qualsiasi tecnica. Facendo leva su questa felice semplicità narrativa e ideologica, esaltata al contempo da una cura compositiva e fotografica dell’immagine di gusto quasi pittorico, che immortala la piccola bottega come fosse uno spazio museale del futuro prossimo, Resistenza artigiana si è aggiudicato con merito il premio come migliore documentario del festival.
Una sceneggiata transessuale
Eppure, a parere di chi scrive, Le coccinelle di Emanuela Pirelli non gli era da meno. All’opposto del lavoro di Manco, la «sceneggiata transessuale» (come da sottotitolo) imbastita dalla giovane autrice napoletana, di formazione fotografa, rifiuta a priori l’idea della compostezza compositiva, così come della narrazione lineare, per lanciarsi generosamente all’inseguimento delle sue quattro, debordanti, protagoniste: Gennaro, Carmen, Genny, Giacinto, quattro trans fondatrici di un gruppo musicale, le Coccinelle appunto, molto noto e richiesto a Napoli e dintorni per i suoi spettacoli che da decenni animano le tavolate di matrimoni, battesimi e prime comunioni.
Il ritmo del film è ora trascinante e festoso, quando ci conduce tra le cerimonie di una Napoli popolare per la quale il femminiello è tradizionalmente parte integrante e non rifiuto della comunità, ora riflessivo e malinconico quando si passa dietro le quinte, e la camera raccoglie le confidenze di queste vite di frontiera, il ricordo di passati difficili, fatti in molti casi di violenza, soprusi e talvolta carcere. È come se anche nello stile il film si facesse carico di esprimere quella contraddizione che è propria della condizione dei transessuali, «uomini che si sentono donne» – e che perciò quando parlano di sé si declinano variamente al femminile o al maschile – e che innerva, a ben vedere, le stesse esibizioni delle Coccinelle: il trucco eccessivo sui loro volti-maschera, i colori sgargianti e le paiette degli abiti di scena rivestono canzoni spesso drammatiche, che ai temi classici della sceneggiata napoletana affiancano quelli propri del loro vissuto fatalmente resistente, costretto tra la solitudine forzosa, l’«obbligo» della prostituzione e il giudizio ipocrita dei benpensanti.
Il risultato di Le coccinelle è un magma qua e là dispersivo, una polifonia ricca e a volte scomposta, che solo il montaggio, a posteriori, si sforza di ricostruire in un insieme coerente. Ma Emanuela Pirelli sa tenere la camera accesa quando altri non lo farebbero, e questo è il suo merito più grande. Un lungo lavoro di entrata in rapporto con queste «donne con qualcosa in più» riverbera da dietro la camera, è ciò che le permette di spingersi oltre, dove sempre dovrebbe approdare un documentario di questo genere. Da lì si sprigiona il surplus di partecipazione e passione che rende Le coccinelle un piccolo capolavoro di autenticità.