L’aria del personaggio impegnato, dell’attore rigoroso e introspettivo nell’ambito di un cinema come quello italiano, che sarebbe più propenso a dare spazio e attenzione agli istrioni accentratori e ai mattatori dell’ego, hanno sempre reso Fabrizio Bentivoglio una presenza unica, riconoscibile. Dotato di un magnetismo fatto di identità silenziose eppure urlanti dal profondo e di mondi appartati che chiedono di essere scoperti, ha corso a volte il rischio di sembrare ripiegato su se stesso. Il suo linguaggio del corpo e delle emozioni è attraversato da un brivido di sensibilità femminile, di conseguenza più aperto all’accoglienza, alla ricezione, all’ascolto, centrato sulle attese e le sospensioni piuttosto che sull’aggressività maschile.
Il suo corpo asciutto e nervoso non ha mai “preso” l’inquadratura, l’ha cercata, incontrata, si è reso flessibile e mutevole alle esigenze degli esseri umani a cui ha dato voce e agli sguardi che lo hanno filmato. Come in un flusso della memoria cinematografica che cerca di ricordare il primo incontro, con quegli occhi ghiacciati e la faccia scavata all’interno, Bentivoglio non fa tanta distinzione tra ruoli da protagonista, partecipazioni straordinarie e personaggi secondari. Lui rappresenta individui che esistono a prescindere dal tempo in cui compaiono sullo schermo, come l’amante schivo che cerca di penetrare la sottile inquietudine di Licia Maglietta ne Le acrobate, o il delicato insegnate di musica del quale si innamora la psicotica Valeria Bruni Tedeschi ne La parola amore esiste.
Questa capacità di farsi specchio del disagio della donna, ad esempio, invece di annullarne la carica di emozione e intensità, ha contribuito ad amplificarle, ad aggiungere quella rifinitura e quel particolare dialettico alla mancanza di discorsi altrimenti troppo ideologici o costruiti. Fabrizio c’era anche in quei casi, colto ai margini dell’inquadratura e dello sguardo, come ad affermare: “entro direttamrente dalla vita“.
Questo movimento tra il margine e il centro gli ha consentito di attraversare l’ostica dimensione di personaggi realmente esistiti come Giorgio Ambrosoli o Piero Nava, il testimone dell’omicidio del giudice Rosario Livatino, mantenendo una consapevolezza dell’uomo, còlto nel gesto e nell’impercettibile sfumatura del volto, evitando di inginocchiarsi alla retorica dei martiri per rimanere sintonizzato, calmo ma vibrante, sulle peculiarità della vita di persone a cui può capitare qualcosa di eccezionale. La differenza in quel caso la fa la centralità dello sguardo: se l’amante della Maglietta non può entrare all’interno del mistero della complicità femminile, Ambrosoli si staglia in una fierezza trattenuta e in una cristallina purezza etica davanti alla macchina da presa, mentre il testimone a rischio di Livatino fa un passo indietro sul piano della consapevolezza, manifestando una compassionevole paura.
Si tratta, in ogni caso, di anteporre bisogni, necessità, frustrazioni universalmente umane e vestirci sopra la specificità delle storie individuali. Dello stesso Ambrosoli Bentivoglio fa arrivare prima la natura “borghese” e la sua realtà di valori e scelte, poi il conseguente e non ricercato eroismo.
Al momento in cui l’interprete si è fatto regista (con Lascia perdere, Johnny!) e dunque lui stesso sguardo sviscerante immaginari e terrritori completamente suoi, in molti si sarebbero aspettati l’impegno e il rigore dell’attore di cui parlavamo all’inizio. Del mondo privato di Bentivoglio, infatti, oltre i personaggi è sempre emerso molto poco, una parte segreta, non esaustiva, rintracciabile forse nelle sfumature più ironiche e tenere dei personaggi in fuga dei film di Salvatores (Marrakech express, Turnè) e negli accenti di ribellione sommersa dei piccoli, anonimi uomini del cinema di Soldini (L’aria serena dell’Ovest, Un’anima divisa in due). Il punto di arrivo di quest’itinerario alternativo, tra sbandamenti umoristici e desideri di rivalsa, è questo affettuoso, scombinato, personalissimo (anche nel senso di autobiografico) Lascia perdere, Johnny!, dove Fabrizio abbandona la robustezza e la solidità delle sue performance e si lascia travolgere dal gusto del vezzo, dell’esagerazione, quasi del grottesco, proiettando nella variegata galleria di personaggi tutto quell’eccesso che forse come interprete non si è mai concesso: l’impresario guitto di Ernesto Mahieux, il caricaturale e liberatorio direttore d’orchesta di Toni Servillo, il cliché del cantante “confidenziale” interpretato con gustosa nostalgia da Beppe Servillo, la faccia allungata, quasi pasoliniana di Antimo Merillo, il Johnny del titolo.
C’è questa generosità straripante, partenopea di volti che si rincorrono primo piano dopo primo piano, con l’orchestra, parafrasi ironica di quella “Piccola Orchestra Avion Travel” di cui Bentivoglio è stato complice in una memorabile tournée, come luogo del ricordo e dell’immaginazione o, ancora meglio, come microcosmo a se stante popolato di sogni perduti e di amarezze irripetibili. C’è un piacere nel raccontare e nel dichiararsi sfacciatamente innamorato dei suoi personaggi che forse comporta un eccessivo disinteresse verso una struttura narrativa – di per se’ fragile – che il Bentivoglio regista tenta di trascinare con la magia delle immagini, fino allo scoramento di un finale tra Fellini e Kusturica.
Come se in fondo non volesse risparmiare il suo corpo dall’identità attoriale, Fabrizio è ancora una volta presente e imprime la paternità assoluta dello sguardo dentro la storia: il suo personaggio, il maestro Augusto Riverberi, è colui che dà il nome all’orchestra girovaga e sgangherata, che stabilisce una coincidenza tra il senso del film e quello della banda, dove il primo prende forma sulla scoppiettante e impazzita natura della seconda. BentivoglioRiverberi cerca di mediare questa comunicazione, quest’inseguimento tra il cinema e la vita, utilizza la sua arte recitativa, come mai aveva fatto neanche nei confronti di figure ispirate alla realtà, come strumento di mediazione e di accoglienza per il mondo che ha scelto di raccontare.
E raccontando attraverso il suo sguardo, stavolta non riesce a rendere partecipe fino in fondo lo spettatore dell’entusiasmo e della nostalgica contemplazione verso un’epoca temporale e spaziale (l’ingenua provincia degli anni Settanta) e musicale (la grande tradizione melodica italiana). Sembra quasi che alla fine sull’audacia della sgangheratezza abbia prevalso il pudore del rigore.
che bel pezzo!
Certo, in Johnny sembra più che altro sfacciatamente innamorato di se stesso (farsi fare la manicure dalla Golino..) E il film non riesce a decollare, troppo spezzato, aneddotico, troppo autoreferenziale.