di Roberto Cirillo/ Motherless Brooklyn, giallo/noir (con punte di hardboiled) che costituisce il secondo film da regista di Edward Norton, può vantare la nobile origine d’un romanzo di Jonathan Lethem: un autore versatile e dalla penna corposa che, solitamente, dà alle stampe solo opere poderose (La fortezza della solitudine), che lo accostano ad altri autori postmoderni americani (Michael Chabon e Thomas Pynchon, su tutti) i cui eroi sono anch’essi passati sul grande schermo, con alterni successi (Wonder Boys, Vizio di forma). Chi conosce un poco Edward Norton può facilmente immaginare come Brooklyn senza madre gli sia potuto sembrare soggetto ideale per un film. Di lui e con lui. Certamente perché un film più newyorkese di questo non si potrebbe immaginare (anche il suo precedente da regista, Tentazioni d’amore, 2000, affondava il suo set in un’aria da romance brillante quasi alleniano). E poi per il protagonista, che sembra ritagliato su Norton e sulla sua fissa (che al grande pubblico l’ha fatto conoscere) di interpretare personaggi che siano doppi (o abbiano un alter ego all’interno) o perlomeno scissi, dall’esordio (Schegge di paura) in poi (Fight Club). E, infatti, Lionel Essrog sembra una versione anziana di Jack Teller, il personaggio che interpretava in The Score, di cui riprende i tic, aggiungendovi un’ecolalia labirintica dovuta alla sindrome di Tourette (alquanto spassosa, almeno nella versione originale che conserva i giochi di parole).
Motherless Brooklyn, come i noir derivativi (non è casuale l’accostamento con Inherent Vice di cui sopra), fa del giallo uno sfondo, un pretesto per innescare e far procedere la trama, con risultati altalenanti, ma che servono allo scopo: il film ha, infatti, un ondivago ritmo quasi jazz, ma un baricentro comunque asimmetricamente orientato verso ciò che a Norton premeva di più: i personaggi e, più di tutti, il suo. Norton si è concesso un personaggio che vediamo, sullo schermo, crescere e maturare, protagonista assoluto, praticamente sempre presente, che dalla macchietta iniziale si fa concreto e sfaccettato. Lionel Essrog reagisce, infatti, alla perdita del nume tutelare/padre putativo Bruce Willis, con un crescendo, psicologico e non, che lo vede condurre in proprio un’indagine a tutto campo che lo conduce dai sobborghi di case popolari a conferenze stampe, a malfamati locali ad Harlem, a picchetti di protesta contro lo svuotamento degli slum (in tempi di gentrificazione è un film, retroattivamente, modernissimo), scandali familiari e loschi intrighi di politici collusi.
La musica ha un ruolo fortissimo tradendo l’intenzione di trasmettere, più di tutto, un’atmosfera (la sola canzone di Thom Yorke vale il biglietto del film: l’ex frontman dei Radiohead regala qui una chicca che è già cult), e Norton è abile nel giocare con la camera, cimentandosi anche in virtuosi volteggi, per meglio risaltare l’unica controparte da cui, indiscutibilmente, si lascia rubare la scena: New York. In questo film, che piacerebbe a urbanisti e architetti, e che recepisce quanto i silenti stravolgimenti dell’architettonica incidano nella comunità a venire, Norton, mentre si apposta, insegue, raccoglie indizi, controinterroga, si spaccia per altri, alla fine, dal Dustin Hoffman di Rain Man iniziale che era, si fa sempre più uomo da marciapiede. Se non altro visivamente, perché poi il suo antieroe resta un romantico idealista fedele a se stesso, che incassa i rovesci del destino, conservando la sua resilienza, senza calare mai il capo, eroe fragilissimo nato all’ombra gittante di quello, più adamantino e cinico, che l’ha forgiato: l’immarcescibile Willis che continua ad aleggiare come uno spettro, facendone un Amleto un po’ patetico ma dal cuore puro.
Motherless Brooklyn è dunque un omaggio postmoderno a un genere, innovando alcuni cliché che tengono conto della decostruzione postmoderna, ma senza per questo risultare insincero o dissacrare i classici del passato, sforzandosi invece di tradirli il necessario per, al contempo, rinnovarli.
Per lo spettatore che sia rimasto rappreso da questa trama e queste atmosfere, ci permettiamo di consigliare il media in cui questo genere sembra pulsare ancora, più vivace che mai, nel pieno rispetto dei canoni: si tratta del fumetto di animali antropomorfi, Blacksad, del duo Canales & Guarnido. Rivive lì, infatti, ma in forma persino migliore, questa trama, in particolare nell’albo Arctic Nation, che sembra quasi saccheggiato, mentre, per atmosfera e sapore jazz, probabilmente siamo più dalle parti de L’inferno, il silenzio. Questo per ribadire, nel caso ce ne fosse bisogno, che viviamo tempi in cui si ha ancora bisogno, anzi più che mai, dell’hardboiled, reincarnazione, falsamente cinica, dell’unico modo in cui un eroe donchisciottesco può sopravvivere in questi giorni, dove il Potere, coi suoi intrighi, è nient’affatto alieno ma, anzi, più pervasivo che mai (cambia i volti delle città, per il puro gusto di farlo, giacché i destinatari della sua azione sono di là da venire).
E se è vero, da Foucault e Barthes in poi, che “il potere è dappertutto, non perché inglobi tutto, ma perché viene da ogni dove”, quindi non ci sarà mai un uomo solo nella stanza dei bottoni, ma un sistema di consenso, un’ideologia che regola i rapporti di forza, è pur vero che questi rapporti possono essere messi in luce e, con un attacco ai rapporti simbolici da parte dell’intellettuale e della letteratura (dalla fiction), si può sgretolare la rete di consensi che li sorregge e, illustrandola, smontarla, facendone una critica e diffondendo una contronarrazione culturale. Si riesca o meno, in quest’opera se non sovvertitrice, sobillatrice, sensibilizzatrice, anche il solo essersi prodigati è una vittoria. In questo riposa la modernità e l’appeal di (contro-)storie del genere, per questo ci piacciono e ci identifichiamo in protagonisti che si cimentano in battaglie più grandi di loro, perdendole magari – il che forse ci autoassolve dal non rovesciare i rapporti simbolici dell’ideologia cui ci sottostiamo – ma conseguendo piccole, private, vittorie che ci fanno tornare a casa più speranzosi, rifulgendo di orgoglio riflesso, e meno colpevoli del nostro inattivismo immobilista.