9 aprile 2003, caduta di Bagdad. Un adolescente grida, davanti alle telecamere di MTV, il suo sogno: diventare regista. Le immagini mostrano le macerie della scuola di cinema dove studiava, la sua inutile ricerca di libri che parlino di cinema nei desolati mercati della città. Il regista Liev Schreieber, che segue la trasmissione, prende a cuore la causa del ragazzo (Muthana Mohamed) e decide di chiamarlo sul set di Ogni cosa è illuminata; la regista Nina Davenport viene incaricata di filmare l’esperienza in Operation filmmaker, quarto film in concorso. La metafora del sogno americano sembra perfetta, pronta lì sul piatto per lavare le coscienze dell’occidente grasso e opulento. Ma qualcosa comincia ad andare storto: Muthana inizia a lavorare partendo dal gradino più basso (deve fare le fotocopie, portare il caffè agli attori); gli vengono affidati alcuni compiti e lui non li porta a termine perché preferisce uscire e andare alle feste (il montaggio del back stage de l film per esempio). I suoi benefattori cominciano a infastidirsi per il suo atteggiamento ingrato, lo trattano in maniera paternalista (“ci stai deludendo”) e lui inizia ribellarsi. La situazione si ribalta e Mhutana prende completamente in mano la situazione decidendo a questo punto il destino del documentario.
Al di là dell’ovvio discorso di questa “operazione” in quanto trasposizione della mentalità degli Stati Uniti che ha portato all’invasione dell’Iraq, il documentario si presenta come un’opera interessante per molti aspetti, alcuni dei quali, forse, spintisi oltre l’intenzionalità dell’autrice.
Il cinema diventa qui quella presenza rivelatrice di ciò che accade nella realtà ma anche protagonista attivo: la presenza della regista nel documentario, che vuole semplicemente testimoniare un’esperienza, viene inclusa nella narrazione che progressivamente comincia a declinarsi su di lei. Protagonista diventa lei stessa, il suo vivere gli avvenimenti, le sue aspettative, la sua insofferenza nei confronti di uno sviluppo degli eventi che non aveva previsto. Ma la sua presenza diventa significativa anche in un altro senso: la narrazione, facendosi guidare dalle sue aspettative, adotta inevitabilmente una prospettiva limitata, ciò che fa emergere è solo quello che lei vede dal suo punto di osservazione. C’è qualcosa che noi non vediamo, un invisibile (la devastazione prodotta dalla guerra in Iraq e i suoi risvolti psicologici) che all’interno della vicenda non può non costituire l’essenziale. La radice di ciò che osserviamo (un ragazzo svogliato e opportunista) in realtà risiede in ciò che ci è sottratto alla vista: Muthana non parla mai della guerra nel suo paese, l’unico accenno che ne fa è vuoto e ripetitivo (“la guerra, non si può raccontare, non si può raccontare”). Non possiamo sapere fino in fondo cosa ha visto, come ha vissuto (i suoi amici gli/ci raccontano di come non riescano a uscire di casa per giorni, che in casa non hanno né acqua né luce), che percezione del suo futuro ha avuto. A prescindere da questo, a lui non è nemmeno concessa quella naturale incertezza che porta tanti dei nostri giovani adolescenti occidentali, pieni di sogni e contraddizioni, a ripiegarsi su se stessi, fuori dall’ottica utopistica e onnipotente di voler cambiare il mondo. Sta cercando la sua strada e contemporaneamente vuole divertirsi, vuole vivere. Ma sulla sua vita ordinaria incombono difficoltà aggiunte dalla sua provenienza: permessi di soggiorno che scadono, contratti di lavoro che si chiudono. Forse non è neanche quel giovane talentuoso su cui l’America aveva puntato i riflettori per autoglorificarsi, è un ragazzo qualunque, come ce ne sono tanti altri. A questo si aggiunga che ciò che noi vediamo di Muthana è soprattutto frutto di un rapporto complesso e reciproco fatto di relazioni interindividuali: nel legame che stabilisce con la Davenport emerge più il personaggio che la persona e in questo meccanismo prende corpo il gioco perverso di chi pretende un risarcimento basandolo sul senso di colpa dell’altro.
E’ difficile così prendere posizione, troppi sono i tasselli mancanti a cui Operation filmmaker riesce esemplarmente a rimandare: qui, suo malgrado, l’opera ci pone di fronte alla straordinaria imponderabilità dell’ordinaria avventura di un adolescente alla ricerca di se stesso.