Lo sguardo altrove
Chiusi nel guscio della loro sofferenza i quattro personaggi di Familia Tortuga, film vincitore del Concorso del Festival di Pesaro, vengono seguiti dalla telecamera, durante l’arco di un’intera giornata, la vigilia dell’anniversario della morte della madre.
Il film si apre sullo zio Manuel, fratello della donna, che si prende cura di tutti quanti: prepara la colazione ai nipoti Ana e Omar, porta il caffè al padre dei due (Juan, disoccupato in trattativa con il sindacato), fa la spesa, annaffia le piante, parla con le sue due tartarughe del giardino. E’ l’unico della famiglia che cerca di colmare la perdita della sorella stabilendo una relazione con ogni oggetto animato o inanimato si trovi in casa; dialoga con l’assenza e la trasforma in una presenza immanente in ogni angolo, nel tentativo di superare l’angoscia della sofferenza. Tutti e quattro i personaggi vivono in una gabbia in cui li rinchiude il loro presente e il loro passato: li vediamo muoversi dentro un guscio (le loro individualità) la cui prospettiva risiede proprio nella casa in cui abitano.
Mentre si muovono, agiscono (Ana passa la mattinata accompagnando passivamente il suo ragazzo che spaccia marijuana; Omar segue le lezioni senza un apparente coinvolgimento; Juan, in attesa di una risposta da parte del sindacato, va in giro cercando di guadagnarsi da vivere facendo il venditore ambulante di sandali) sono seguiti da uno sguardo vigile, attento a cogliere i minimi cambiamenti. L’occhio attraverso il quale li vediamo sembra appartenere a una presenza fantasma che li segue, li spia e registra il loro muoversi alla ricerca di un’identità, nella vana fuga da un dolore tanto più forte quanto più acuto è il desiderio di sfuggirgli. Lo sguardo della macchina da presa, quello del regista e quello invisibile della madre che non c’è più sembrano coincidere. I quattro protagonisti di Familia Tortuga vengono così accompagnati nella loro solitudine: il regista segue i loro movimenti nervosi ma quasi mai l’inquadratura li ritrae insieme; li sorprende riempiendo l’immagine di silenzi e attese; si attacca ai personaggi con l’intenzione di svelarne il vuoto, l’assenza che li tormenta. I tentativi che fanno per sfuggirgli (incontrano, amano) sono del tutto inutili. Lo sguardo che otteniamo sulle loro esistenze è uno sguardo verità che tenta di rompere la falsa rimozione di un dolore. In questo senso il film è la storia di un’assenza all’interno della quale dimorano sia la perdita luttuosa, che la condanna alla solitudine degli individui da parte di una società estraniante. I pochi esterni di Città del Messico sono rappresentativi dello smarrimento dei protagonisti: sono infatti i non-luoghi (il mercato coperto con i banchi chiusi; il negozio cinese uguale a tanti altri nel mondo; il marciapiede della tangenziale; gli angoli di periferia) che, incapaci di ospitare e unificare la loro identità, accolgono il vago errare dei personaggi della storia. Nessuno di loro trova conforto né fuori né altrove; la casa in cui vivono porta in sé la contraddizione di essere l’unico posto in cui è possibile ritrovarsi ma anche lo spazio in cui si manifesta la consapevolezza di essere soli e abbandonati.
Il giovane regista Rubén Imaz Castro vince meritatamente la 43esima edizione della Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro, dimostrando il suo grande talento in questa sua opera prima (tesi di laurea del suo corso di studi in cinema a Città del Messico; autore inoltre dei cortometraggi Juego de pelota, Afuera de la Ciudad e Cicatriz , quest’ultimo selezionato nel 2003 al Talent Campus della Berlinale) girata con un naturalismo alla “messicana” che ricorda molto alcune prime opere di Cassavetes (Volti e Mariti per esempio). Il racconto che ci offre non è mai pretenzioso né presuntuoso; accompagna con equilibrate sottolineature musicali i momenti più intensi lasciandosi forse scappare ogni tanto la mano in alcuni inspiegabili ralenti che cozzano col tono elegiaco della narrazione. Tono che a volte perde di tensione poetica (il film dura 136 minuti) quando volge alla ripetizione e alla dilatazione di tempi lunghi caratteristici di una narrazione in prosa. Piccoli difetti che nulla tolgono a quest’elegia convulsa in cui la morte di una madre conduce i familiari all’esplosione e alla riconciliazione. Con se stessi e con gli altri. Familia Tortuga ci mostra come sia possibile parlare di un’assenza trasformandola nella presenza coagulante di identità, e di come un’immagine possa riferirsi a qualcosa che non c’è. E il pregio maggiore è tutto lì: nel costruire il realismo del racconto sulla base di qualcosa che non è afferrabile agli occhi, di ciò che sfugge, di ciò che si è perso.
E’ possibile vedere una selezione dei film presentati nella 43esima edizione della Mostra Nuovo Cinema di Pesaro, a Roma dal 4 al 7 luglio 2007, all’interno dell’iniziativa “Notti di cinema a piazza Vittorio”. Il programma è visibile in http://www.agisanec.lazio.it/