Si discuteva, su questo sito, di un certo cinema indipendente americano istituzionalizzato: la tendenza, cioè (manifestatasi anche al recente Torino Film Festival), da parte di alcuni registi USA ad andare sul sicuro, affidandosi a formule collaudate e magari attori-feticcio, restando sulla carta indie ma di fatto strizzando l’occhio a Hollywood e mirando al grande successo di pubblico.
È questo il caso di Mosse Vincenti (Win Win), nelle sale da venerdì scorso, terzo lungometraggio di Tom McCarthy (L’Ospite Inatteso), in concorso appunto a Torino. Film senz’altro appassionante e godibile, ma un po’ troppo patinato, artificioso e furbetto, specialmente per lo spettatore più smaliziato, e soprattutto nell’ambito di un festival. L’attore-feticcio della situazione è Paul Giamatti, nel suo ormai consueto stato di grazia. Interpreta un modesto avvocato, Mike Flaherty, che dopo aver vinto una causa non mantiene la parola data al giudice e al suo assistito. Trattandosi di un anziano solo e dimenticato da tutti, non sembrano esserci particolari problemi, fino all’entrata in scena del nipote di questi, Kyle, un ragazzino inquieto e introverso, scappato di casa. Tra Mike e Kyle si instaura un ottimo rapporto, grazie anche al talento del ragazzo per la lotta libera (l’avvocato è allenatore per hobby e lo accoglie in squadra). La comparsa della madre di Kyle (uscita dalla clinica dove cercava di disintossicarsi) e la scoperta della menzogna di Mike faranno precipitare le cose, fino al prevedibile finale.
In sede di presentazione, Tom McCarty ha presentato il suo lavoro come un’opera “sulle seconde occasioni”. Ce n’è una per Kyle (era stato cacciato da scuola per cattiva condotta), una per Mike dopo aver compromesso tutto, una per i ragazzi della squadra di lotta libera, condannati quasi sempre alla sconfitta. Curiosamente, sembra non esserci per Cindy (Melanie Lynskey), l’avida e nevrotica madre di Kyle, unico personaggio totalmente negativo. Sono però tanti, purtroppo, i cliché che caratterizzano la pellicola, e la sensazione prevalente è che McCarthy non osi quanto potrebbe, limitandosi a uno sterile compitino. La parabola del ragazzo “difficile” che si scopre campione dello sport, il simpatico e onesto signore che ha commesso solo un errore e lo deve pagar caro, la madre assente che vuole riconquistare con la forza l’affetto del figlio, sono tutti aspetti che sanno irrimediabilmente di già visto. Il risultato finale, si diceva, non è affatto disprezzabile, ma lascia come un senso di incompiutezza, di occasione persa. Peccato, perché sarebbe probabilmente bastato poco per dare al film un tocco meno stereotipato e più avvincente. Peccato, pure, perché la prova di tutto il cast è di ottimo livello. Oltre a Giamatti, fuoriclasse in questo ruolo e in questo genere di commedie, sono da segnalare almeno il giovane Alex Shaffer (classe 1993, all’esordio in un lungometraggio) e Bobby Cannavale, brillante caratterista anche sul piccolo schermo, nella parte di Terry, l’amico di Mike in crisi per la separazione dalla moglie.
Tocca, dunque, accontentarsi di una intelligente commedia per famiglie, in bilico tra Sundance e Hollywood, fresca e leggera, che fa pensare e trasmette buonumore, che appaga anche il senso estetico, ma di cui tra qualche mese probabilmente non serberemo molti ricordi.