Nella tarda serata di martedì 30 novembre, due dita di neve sulla cupola della Mole, il TFF propone nella collaterale “Festa mobile – Figure nel paesaggio” il britannico Third Star. E’ la storia all-male (eppure diretta da una donna, l’australiana Hattie Dalton) di un trentenne, malato terminale, che intraprende insieme ai tre amici di sempre un viaggio spericolato lungo la costa orientale del Galles, al termine del quale ha intenzione di non tornare più indietro. In un mix sapiente di gag irresistibili rigorosamente al maschile e intensi addensamenti emozionali che preludono all’annunciato finale drammatico, il film scorre efficacemente carpendo l’attenzione del pubblico. Cameratismo ardente, si sussurra tra le poltrone. Dalle parti del pre-finale però, in uno dei momenti riflessivi che squarciano la narrazione picaresca, il silenzio naturale e sacro in cui il film ha immerso la sala viene infranto dall’esterno da un suono di tamburi, prima flebilissimo, poi via via più intenso. Tamburi in avvicinamento. Ci vogliono alcuni secondi agli spettatori per ridestarsi, uscire dal film, e ricordarsi che il TFF numero 28 è pur sempre un festival sotto minaccia d’assedio, un festival che si svolge con la guerra fuori. Per un breve momento si desidererebbe che le porte venissero spalancate a forza dall’esterno, la proiezione bloccata e il cinema occupato da quel movimento di studenti e ricercatori che rivendica sacrosanta attenzione alla sua causa e chiede, fin dall’inizio della manifestazione, il sostegno di quello che dovrebbe essere il suo alleato naturale: il “mondo dell’arte”. Ma i tamburi si abbassano nuovamente e infine si allontanano, le porte rimangono ben chiuse, Third Star prosegue fino al the end.
Solo ventiquattro ore prima il festival era stato attraversato dalla notizia della morte di Mario Monicelli. Una morte, nella su dinamica, scomoda e fastidiosa proprio come i suoi acri film della maturità (penso a Caro Michele, Amici miei, Un borghese piccolo piccolo…): offende il senso comune della sacralità-della-vita-umana, fa sussultare i benpensanti fuori e dentro il Parlamento, divide invece che pacificare come ogni fine, cattolicamente, vorrebbe. Una morte da non-riconciliato, che ha voluto scansare fino alla fine (e un passo oltre) il pantano della retorica. Lucido fino all’ultimo, in diverse uscite pubbliche recenti Monicelli aveva esplicitamente evocato la necessità di un’iniziativa rivoluzionaria che rovesciasse l’attuale situazione politica e sociale italiana. In particolare, rivolgendosi proprio agli studenti protagonisti del movimento anti-Gelmini, li aveva esortati a convogliare quelle energie giovanili, che lui sentiva di aver smarrito, in un progetto di sovvertimento dell’esistente che non si limitasse alla contestazione della riforma, ma coinvolgesse l’intera struttura sociale. Roba d’altri tempi.
Sui libri di storia abbiamo letto di Venezia ’68 e di Pesaro ’68, le due mostre “occupate” della storia del cinema italiano, forse i momenti più alti dell’incontro tra politica e cinema nel nostro paese. In quei giorni, si racconta, era possibile partecipare ad assemblee appassionate tra registi, lavoratori e studenti, e ascoltare gente come Silvano Agosti affermare che era tempo di “attaccare la macchina da presa a un chiodo e fare la rivoluzione”. Da allora sono passati 42 anni e nemmeno per Gianni Amelio, al secondo anno di direzione del TFF, deve essere stato un festival di semplice gestione. Messo alle strette dalla necessità di portare a compimento la manifestazione e dalla minacciosa idiozia delle istituzioni locali, spintasi fino alla promulgazione di una specie di editto nei suoi confronti (“Amelio lasci Torino”, ha abbaiato il presidente della Regione Piemonte Cota il giorno dell’inaugurazione), il regista di Così ridevano ha dovuto contenere il proprio sostegno alla protesta. Così, se lo slancio iniziale lo aveva spinto nei giorni precedenti l’avvio ad affiancare i manifestanti sul tetto di Palazzo Nuovo e a dare loro la parola durante la cerimonia d’apertura al Teatro Regio, in seconda battuta ha dovuto poi aggiustare il tiro, rilasciando un comunicato con molti distinguo circa il suo appoggio al movimento anti-riforma.
La verità è che, dal punto di vista politico e culturale, dal 1968 a oggi sono passati ben più di 42 anni, un tempo durante il quale si è erosa innanzitutto la possibilità stessa di rapporto tra la sala e il “mondo”. Il dentro e il fuori non comunicano più, il cinema si è assolutizzato in un discorso autoreferenziale e autistico, la realtà gli basta e avanza come materia del contenuto dei documentari, che sempre più affollano, infatti, le sezioni collaterali e non dei festival. E così i più morti oggi siamo noi, pubblico-pubblico di un (sempre più spinto) cinema-cinema, nient’altro cioè che uomini vedenti. Anzi, cadaveri vedenti, comodamente seppelliti in poltrone sempre più confortevoli, la nostra esistenza limitandosi qui all’atto del guardare. Siamo noi i protagonisti di Vanishing on 7th Street (a Torino nella sezione “Rapporto confidenziale”), nella cui sequenza iniziale gli spettatori di un multisala, in seguito a un improvviso black out, si dissolvono, letteralmente inghiottiti dal buio, e al ritorno della corrente elettrica sulle poltrone non ci sono che i loro abiti! Cadaveri scomparsi o negati, come quello che ossessiona la donna di Last Chestnuts (in concorso), che rifiuta di ammettere a se stessa la morte del figlio, o quello di cui si mette disperatamente in cerca Ree in Winter’s Bone (in concorso, vincitore del premio come miglior film) per poter provare la morte di suo padre. Non può nulla su di noi nemmeno lo zombie salvifico che in L.A. Zombie (passato qui in “Onde”) riporta in vita i morti per mezzo di un rapporto sessuale. Nessuna possibilità insomma che qualcuno si alzi dalla poltrona e spalanchi dall’interno le porte della sala.
E allora, se festival di morti deve essere, non può che svettare, ben più di un palmo sopra tutti, vincitore indiscusso e indiscutibile proprio in quanto visione postuma e perciò definitiva, il The Dead (1987) di James Joyce/John Huston, che la retrospettiva dedicata dal TFF al regista americano ha fornito l’occasione di (ri)vedere. Straordinario miracolo di letteratura filmata, riflessione altissima sul senso della vita, The Dead lavora mirabilmente sulla memoria, sottraendola all’accomodante, abusata funzione rievocativa e conferendole – potenza dell’epifania joyciana – un impietoso compito di verità. In ottantatre agili minuti, girati, guarda un po’, poco prima di morire, Huston ci ricorda il nostro destino prossimo e ineluttabile di ombre, ma ci suggerisce, anche, quanto già gli assomigli il nostro presente che attraversiamo quali morti viventi, a cui la natura è sostanzialmente indifferente. Quella che si posa sulle case e sui cimiteri d’Irlanda – sulla cupola della Mole e sulle teste di chi è in coda per il prossimo spettacolo – “su tutti i vivi e sui morti”, è la stessa identica neve.
engagement socio-cultu-cinématographique.
molto bello.