Di Wes Anderson ammiriamo da sempre le sue leggere imperfezioni, la ripetitività e il puntiglioso rigore con cui tende a rappresentare i suoi personaggi sempre coerentemente approssimativi e spaesati.

Dopo l’esperienza d’animazione a passo-uno con Fantastic Mr. Fox , il regista de I Tenenbaum torna agli attori in carne ossa, ma non abbandona affatto il tema portante del suo cinema che ha sempre tratto in modo esemplare il dilemma della fuga e l’approssimarsi multiforme e subcoscente ad imprevedibili rese dei conti con se stessi.

Oltre che per i suoi difetti, coltiviamo una specie di culto personale per Anderson in virtù del potere che i suoi film riescono ad avere sulla nostra immaginazione. Sarà che abbiamo studiato il piano sequenza delle sezioni del sommergibile Belafonte decine di volte, ma anche i primi minuti di Moonrise Kingdom – con la carrellata nelle stanze cartonate della casa dei Bishop – è così intenso e riuscito l’alternarsi tra finzione e passato, favola e ricordi che è difficile cedere a qualsiasi pretesa della realtà. Il paradosso maggiore nello stile di Wes Anderson è che tanto più tende a stabilizzarsi su un linguaggio e una formula innocua e da cartone animato tanto più riesce a prendere lo slancio per sorprenderci e gettarci nello sconforto di una specie di nostalgia che non è solo immedesimazione, ma un coinvolgimento onirico che lavora sull’inconscio.

Dopo aver demolito e allo stesso tempo lanciato nel nostro Pantheon personale Jacques-Yves Cousteau, Wes Anderson con Moonrise Kingdom rielabora la propria visione personale dell’ambiente degli scout strabordando oltre il limite dell’immaginabile tutte le chanche di dissacrazione che il mondo dei bambini che vogliono sembrare adulti e degli adulti che invece vogliono sembrare bambini può mettergli a disposizione.

Se nelle scene finali della rappresentazioni teatrali e delle esercitazioni di massa l’estro di Anderson assume una valenza coreografica quasi immanente, nella prima parte del film è molto toccante lo spirito minimale e da favola di serie b con cui il regista ci presenta i suoi personaggi. Oltre ad utilizzare al meglio un cast stellare che conta Bruce Willis, Tilda Swinton, Edward Norton e decine di altri colpisce la simbiosi totale che il nostro ha raggiunto con lo strepitoso Bill Murray a cui bastano due pose e la scena con l’accetta ubriaco per rubare per sempre la scena a tutti gli altri.

Anche in relazione ai film ancora più riusciti del passato, assistendo a Moonrise Kingdome è difficile capire il grado di evoluzione del cinema di Anderson. Dopo Fantastic Mr. Fox il regista texano sembra aver scelto la strada di una regressione totale e il suo unico progresso sembra la rassegnazione. Passate le digressioni esistenziali de Il treno per il Darjeeling, il rapporto con la sconfitta de i Tennembaum o le immersioni compulsive di Zissou ora sembra essere dissolto ogni rapporto con il mondo esterno per l’autore di Rushmore che sembra indissolubilmente rinchiuso nel suo passato. Logicamente conveniamo a questo con una specie di invidia adolescenziale e vorremmo avere anche noi la chiave per entrare dentro la porta di quel mondo sulla casa nell’albero così schematico ed emozionale. Di sicuro, grazie a  Moonrise Kingdome dopo tanti anni ci siamo di nuovo immedesimati in un poliziotto impersonato da Bruce Willis e abbiamo condiviso tutta l’aridità e lo sconforto che si può provare nel non riuscire a comprendere la lucidità di un dodicenne.

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