Duncan Jones, regista esordiente, porta sullo schermo il suo primo lungometraggio dopo una lunga attività come regista di pubblicità e dopo aver realizzato qualche cortometraggio. E’ figlio d’arte. Suo papà, un certo David Bowie, ha avuto a che fare con il cinema, anche di fantascienza, e ha costruito atmosfere aliene nelle sue canzoni e nelle sue celebri performance. Il ragazzo ha frequentato fin dall’infanzia luoghi cosmici, ha amato film “science-fiction” e ammirato i maestri che hanno innalzato quel genere con i loro capolavori. Ora ci prova lui, e lo fa in una fase in cui il cinema di fantascienza ha scelto di essere principalmente un immenso show, una giostra da intrattenimento il cui motore innesca azione, inseguimenti galattici, sparatorie laser, il tutto potenziato da tecniche grafiche che il dispositivo digitale perfeziona sempre di più. Meritorio coraggio, perché Moon va in tutt’altra direzione. Un set reale costruito su una superficie reale regala al film un contesto scenografico che nella sua artigianalità ci riporta alle atmosfere di Alien, specie nel scene girate in esterno. Del resto è stato lo stesso regista a rivelare compiaciuto la sua devozione per Ridley Scott e James Cameron.
Il contrasto con i film di fantascienza di oggi è netto, palesemente nell’abbandono dei ritmi vorticosi a cui siamo abituati. Moon è un film che frena l’azione e nella lentezza del suo passo pone al centro del racconto l’uomo, tematizzando le sue angosce e la sua alienazione di fronte a ciò che egli stesso ha costruito. Fantascienza filosofica, umanistica, sfiorando Kubrick e Tarkorsky, decadente e senza scampo. Un attore, il bravo Sam Rockwell e un robot, Gwerty (voce di Kevin Spacey) dai modi vellutati come fu il kubrickiano Hal, sono gli unici personaggi presenti nel film. Rockwell è stato spedito da solo sulla Luna per tre lunghi anni e la sua mansione consiste nell’estrarre energia (Elio-3) per rifornire il pianeta Terra. A due settimane dalla fine della sua missione, quando sta per essere sostituito dal suo successore, scopre qualcosa che potrà inesorabilmente impedire il suo ritorno a casa.
A questo punto l’intreccio si ingarbuglia un pò perdendo i riferimenti. Quando Sam scopre di essere un clone incontrando il proprio doppio si instaura tra i due un rapporto confuso, di conflitto e complicità al tempo stesso. Ed è su questo rapporto che la storia si arena rendendo tutto più complesso e nebuloso. Tra sfasature temporali, ripetizioni e sdoppiamenti, il rischio è che allo spettatore non resti molto del “messaggio” del film. Non di rado la pellicola sconta la scelta minimalista del regista (di fatto un solo attore per due soli ambienti: interno ed esterno) il cui effetto è un faticoso avvitamento del plot verso strade buie e senza uscita. Di importante c’è l’empatia che Duncan Jones sente nei confronti del suo personaggio vittima di un implacabile gioco ordito alle sue spalle. Le scene in cui Sam comunica con la propria moglie che lo aspetta a casa, sono gli unici momenti di umanità nella sua vita ripetitiva e senza affetti, gli unici che gli danno la speranza o l’illusione che il suo stato di isolamento stia per finire. Lo spazio cosmico comprime il suo infinito nel chiuso di una asettica base spaziale producendo nel protagonista il senso di un’asfittica prigionia dove la solitudine si fa insopportabile. Capirà presto che occorre fuggire.